domenica 22 agosto 2010

UNDE VENIS, POLICARPO?

VIRGILIO ZANOLLA


Genealogia letteraria di Policarpo Quaresma




















1. Lo scrittore Afonso Henriques de
Lima Barreto (1881-1922)
















2. Rio de Janeiro agli albori del Novecento



1) Carattere di Policarpo. 2) Genesi del personaggio. 3) La famiglia letteraria di Quaresma: tangenze e differenze.


1) Carattere di Policarpo.
Se qualcuno mi domandasse qual è lo scrittore di maggior peso nella storia della letteratura brasiliana, risponderei senza dubbio Machado de Assis; se mi chiedesse quale sia il personaggio più pregnante espresso da questa letteratura, con eguale certezza risponderei Policarpo Quaresma. Può darsi che in questo caso applichi il mio giudizio in modo acritico: ma non c’è figura che giudichi altrettanto viva, che m’ispiri altrettanta simpatia e solidarietà. Non mi piace così nemmeno Quincas Borba: figuriamoci dunque il filosofo post-mortem Bras Cubás, il ‘casmurro’ Bento coi suoi segreti turbamenti davanti al possibile tradimento di Capitú, il machista ma libertario Capitan Rodrigo, lo jagunço Riobaldo nell’ambigua natura del suo sentimento per Diadorim... Se queste figure letterarie hanno grande risalto artistico, trovo però che non abbiano lo stesso afflato umano, cioè quel particolarissimo quid che conferisce al personaggio la sua universalità; no, davvero: nessuno vale l’assurdo, assiduo, antistorico e patriottico Policarpo Quaresma dello scrittore carioca Afonso Henriques de Lima Barreto (1881-1922).
In certo qual modo, il personaggio di Lima incarna il prototipo dell’eroe anonimo, e, devo aggiungere, del tutto malgré lui: ecco un ottimo motivo per la simpatia che da sempre ispira ai lettori. Quando penso a Policarpo, mi viene in mente un oscuro ma indimenticato eroe piemontese, Pietro Micca (1677-1706), il soldato e minatore dell’esercito sabaudo che nella notte tra il 29 e 30 agosto del 1706, di guardia nei sotterranei della città di Torino assediata dai francesi, resosi conto che il nemico era penetrato in una galleria della Cittadella, dette fuoco a un barilotto di polvere da sparo causando col crollo della stessa anche l’interruzione del passaggio e la propria morte. Nell’agire, Micca non aveva alcuna certezza che il suo nome e il suo sacrificio sarebbero stati conosciuti e ricordati: pure, non perse tempo. Ecco, non so dire bene il perché, ma dal punto di vista antropologico mi pare che la figura di Quaresma appartenga a quello stesso ceppo.
Dice Barreto che Policarpo «nel più, era un uomo come tutti gli altri, a non essere quelli che hanno ambizioni politiche o di fortuna, perché Quaresma non le aveva al minimo grado» (I, 1). Persona modesta e semplice, dunque, di pensiero e condotta lineare; è un idealista imbevuto d’amor patrio, che sogna la crescita della nazione brasiliana nell’apprezzamento dei suoi compatrioti e nell’àmbito degli altri paesi. Il suo problema nasce dalla «convinzione che sempre aveva avuto d’essere il Brasile il primo paese del mondo» (I, 2): perché, animato dal fervente desiderio di «grandi impeti» (id.) che ne possano dar prova, egli «sentiva dentro di sé impulsi imperiosi di agire, di operare e di concretizzare le sue idee» (id.). Questi «impulsi imperiosi» lo portano ad assumere diverse iniziative: a volte lodevoli, come quelle di studiare la modinha e il tupi-guarani, di tenersi informato sui fatti e sulle bellezze del Brasile attraverso la lettura di libri e giornali e farne partecipi i colleghi di lavoro; a volte discutibili (nell’opportunità più che nel merito, giacché ottengono il solo risultato di irritare i suoi superiori e porlo in ridicolo, o peggio): la petizione per sollecitare l’adozione del tupi-guarani come lingua «ufficiale e nazionale del popolo brasiliano» (I, 4), causa indiretta della sospensione dal lavoro, e naturalmente la fatale lettera nella quale denuncia al maresciallo Peixoto l’arbìtrio delle esecuzioni sommarie dei prigionieri della Revolta da Armada. Quando, dopo l’allontanamento dall’ufficio per avere trascritto un documento ufficiale in lingua tupi, Policarpo incontra per strada l’amico Ricardo, si mostra ben conscio di quanto gli ideali che coltiva lo facciano diverso dai suoi colleghi: sognare, egli ammette, «consola, forse; ma ci fa anche differenti dagli altri, scava abissi tra gli uomini» (id.).
Le stravaganze del personaggio risaltano nelle manifestazioni di patriottismo. Egli estende la devozione alla patria oltre qualsiasi limite di ragionevolezza, fino al punto di risultare ridicolo. Per Policarpo, il patriottismo non è soltanto amore del proprio paese, ma anche l’ostinata difesa di ogni elemento brasiliano in rapporto agli omologhi di altri paesi, a prescindere dalla scala dei rispettivi valori; così, per lui, il Rio delle Amazzoni dovrebbe essere per forza più lungo del Nilo, il vino del Rio Grande è incomparabilmente superiore ai Borgogna e Bordeaux, e desiderare di andare in Europa diventa una patente ingratitudine verso la propria terra. Quando, in una conversazione con lui, il marito di Olga afferma che «le terre nere della Russia» sono più fertili di quelle brasiliane, la risposta del maggiore è categorica: «Il signore non è patriota!» (II, 3). Nel suo autarchico desiderio di sostituire usi e costumi presi da altri paesi con elementi originali brasiliani, Policarpo studia i rituali indigeni, e non si fa problemi di salutare l’arrivo del compadre Vicente e della figlioccia Olga mettendosi a piangere e gridare con studiata disperazione, secondo il più ortodosso cerimoniale tupinambá.
Significativamente, un personaggio come Policarpo appare nel momento storico meno favorevole ai nazionalismi: ossia, nel periodo - che segue quello della Guerra de Canudos, dove la stima dell’opinione pubblica verso l’esercito brasiliano toccò il punto più basso - di grande esterofilia della politica oligarchica del «café com leite»; anni nei quali ogni novità che giunge dall’Europa e dagli Stati Uniti ha immediata risonanza nel paese, e trova spesso una qualche emulazione o corrispondenza. Succede soprattutto per la lotta di classe e le rivendicazioni sociali: così, a Rio de Janeiro sorge nel 1908 la prima Confederação Operária, e l’allora capitale è teatro di alcune rivolte: popolari (dei Bondes, 1901, e della Vacina, 1904), e dei marinai delle corazzate (della Chibata, 1910). Questo periodo precede, dal 1922, la reazione politica e militare del Tenentismo con il Levante de Copacabana, e quella letteraria e «antropofágica» del Modernismo.
Barreto muore proprio in quest’ultimo anno, e la sua scomparsa assume a posteriori un valore emblematico: non avendo egli mai nascosto le sue simpatie letterarie e politiche, e neppure le sue idiosincrasie; lui, visceralmente avverso a scrittori (a personaggi, direi meglio) come Nietzsche e D’Annunzio, come avrebbe reagito davanti alla deriva nazionalista dei Cassiano Ricardo, Plínio Salgado e Menotti del Picchia, leggendo dichiarazioni sulla tutela del «patriottismo sacrosanto della lingua» e per l’«instancabile difesa» dello «spirito nazionale» come quelle di Menotti del Picchia (1), che pure, senza dubbio, il suo Policarpo avrebbe subito sottoscritto?


2) Genesi del personaggio.
Per comprendere come Barreto sia giunto a concepire il personaggio di Quaresma occorre però anzitutto conoscere, almeno per sommi capi, la formazione culturale dello scrittore.
In più occasioni, è lui stesso a fornire notizie in proposito; come ne O cemitério dos vivos:


Le mie letture letterarie erano poche. Da bambino, leggevo gli autori nazionali: Alencar, Macedo, Manuel de Almeida, Aluísio, Machado de Assis; ed anche i poeti: Gonçalves Dias, Varela, Castro Alves e Gonzaga, del quale seppi a memoria varie liriche della Marília de Dirceu. Júlio Verne, però, era il mio incanto, giacché mi faceva sognare in concreto di nuove terre, nuovi mari, nuovi cieli e perfino nuovi mezzi differenti dai possibili da ammettere, anche immaginando.
Dopo i diciassette anni, cercai poco la letteratura, a non essere il Paolo e Virginia, il Don Chisciotte, il Robinson, che sono libri generalmente conosciuti e universalmente apprezzati. (2)


Altre annotazioni presenti qua e là nella sua opera, e soprattutto gli articoli e recensioni riuniti in Marginalia, fanno però capire come Barreto avesse poi sviluppato per le buone letture quella che - anche in virtù dell’aspetto professionale, tutt’altro che secondario - si potrebbe definire come una sorta di vocazione onnivora. Tra gli autori citati con maggiore frequenza vi sono, con i brasiliani suoi contemporanei (Gastão Cruls, Ranulfo Prata, Coelho Neto, Carlos Vasconcelos, Adelino Magalhães, Carmen Dolores, Nestor Vítor, Mário Sete, Léo Vaz, Monteiro Lobato, Hilário Tacito, Albertina Berta, Veiga Miranda, ecc.), anche dei classici francesi (Renán, Balzac, Flaubert, Maupassant, Anatole France) e russi (Turgenev, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Gor’kij).
Questa predilezione per gli scrittori francesi e russi, favorita nel primo caso dalla conoscenza della lingua francese e nel secondo dovuta, molto probabilmente, anche ad alcune affinità col disagio sociale brasiliano da lui colte nella cronica arretratezza - puntualmente denunciata dagli scrittori - delle masse agricole e operaie sotto l’impero zarista, influenzò indubbiamente Lima nella sua attenzione verso le classi più umili, peraltro sempre profondamente avvertita.
Il personaggio di Quaresma, così, per la sua estrazione piccolo-borghese e il suo impiego di funzionario pubblico in un’amministrazione militare, assume un ruolo tutto particolare ed emblematico: rappresenta infatti - e suo malgrado - l’impossibilità di conciliare coi grigi doveri d’una burocrazia retriva gli stimoli sociali e gli impulsi della coscienza.
Studiando la genesi della figura nei vari scritti di Barreto, ci si può rendere conto di come la sua creazione sia avvenuta per accumulo, sulla base di tante osservazioni e dettagli che, come tasselli di un mosaico, pian piano hanno concorso a mettere a fuoco il personaggio, ‘estratto’ dal magma della fantasia fino ad assumere forma concreta, fisicità e consistenza spirituale, con un procedimento che rammenta vagamente quello impiegato da Michelangelo per dare vita ai suoi Prigioni.
Una possibile prima idea sul carattere di Policarpo si trova in un appunto del Diário íntimo, alla data 10 gennaio 1905, quando l’autore presenta un suo conoscente, il maggiore Vidal. Se si prescinde dalla razza (Quaresma - Barreto non lo dice ma lo lascia intendere - è bianco, Vidal nero o mulatto), già la sua descrizione fisica («magruccio, dal cranio compresso, occhi quasi alla superficie della fisionomia, pelle di scarpa vecchia che non fu mai lustrata») richiama in qualche misura quella del protagonista del romanzo («un uomo piccolo, magro, che usava pince-nez, guardava sempre basso, ma, quando fissava qualcuno o qualche cosa, i suoi occhi assumevano, dietro alle lenti, una forte vivezza di penetrazione, ed era come se egli volesse entrare nell’anima della persona o della cosa che fissava»: I, 1). Ma più del comune grado di maggiore e del fatto d’essere entrambi piccoli e magri, ciò che stabilisce un vero contatto tra Vidal e Quaresma è il paradosso delle loro vicende: mentre il nazionalista Policarpo finisce vittima del suo stesso impulso patriottico, il maggiore Vidal, il quale «vestiva l’uniforme di maggiore onorario, ed essendo stato nel Paraguay, aveva ottenuto alcune prebende militari», che «con successivi avvenimenti [...] andarono aumentando», «un bel giorno» si vede soppiantato nelle prebende da un pernambucano «di eguale nome, bianco, che aveva preso parte anch’egli alla campagna di guerra», e «venne considerato come colui al quale spettavano i diritti»: «congedato da impiegato dell’Arsenal de Guerra, escluso dal sussidio, rimase in miseria». Nel Quaresma, però, Barreto assegnerà una malasorte vagamente simile ad altro personaggio, il Contra-Almirante Caldas, processato incolpevolmente per la sparizione della corazzata “Lima Barros”.
Il Diário íntimo registrava in precedenza, nell’anno 1903, anche il progetto di un libro sull’«História da Escravidão Negra no Brasil e la sua influenza nella nostra nazionalità», a lungo ruminato, se è vero che il 10 gennaio 1905 Lima scriveva: «Pretendo di fare un romanzo nel quale descrivere la vita e il lavoro dei neri in una fazenda. Sarà una specie di Germinal negro, con più psicologia peculiare e maggior soffio d’epopea. Animerà un dramma ombroso, tragico e misterioso, come quelli del tempo della schiavitù». Sebbene fin d’allora Barreto si fosse dichiarato scettico sulla possibilità di scriverlo, e infatti il romanzo non ebbe seguito (nelle intenzioni dell’allora giovane autore, esso avrebbe dovuto essere il suo «capolavoro», capace, forse, di garantirgli «una fama europea»), la sua idea è interessante perché, a dispetto della diversa ambientazione storica e delle profonde differenze concettuali, essa potrebbe trovarsi alla base del Quaresma. Nella storia di Policarpo, infatti, Lima assegnò al suo eroe tali caratteristiche di singolarità che ne fece comunque una sorta di ‘animale raro’, portandolo, in ultimo, ad essere considerato anch’egli un reietto, sia pure per motivi che prescindono dal colore della pelle; il paradosso è nel fatto che la sua ‘diversità’ non tradisce alcuna supposta pericolosità sociale, anzi, fonda addirittura i presupposti in un - certo eccessivo e a tratti ridicolo - sano idealismo nazionalista. I cinque anni che separano l’appunto sul suo «Germinal negro» dalla stesura del Quaresma servirono all’autore per un filtraggio dei motivi, a una progressiva focalizzazione del carattere e delle aspirazioni del suo personaggio in embrione.
Un altro contributo per definire il carattere di Policarpo il Diário íntimo l’annota pochi giorni dopo, in data 16 gennaio 1905, ed è ancora un’idea di romanzo:


Un libro che ho pensato. Tibau, figlio di una ragazza fuggita dalla casa di suo padre in compagnia di un vagabondo, che poco dopo l’abbandona, educa con grande difficoltà questo figlio, che arriva a studiare medicina; ma, al terzo anno, senza il sostegno di sua madre, la pianta finisce senza appoggio e, infine, per raccomandazione d’un collega, diventa professore di Storia del Brasile, in un collegio a Botafogo; il direttore, notando che era una macchia per il suo istituto avere un professore senz’alcun titolo, gli rimedia quello di maggiore della Guardia Nazionale. Inaspettatamente il Maggiore Tibau, che di suo nonno aveva avuto poche notizie, viene a sapere che era appena deceduto a Porto, lasciandogli (e riconoscendolo come nipote) tutta la sua fortuna: duemila milioni. Nel corso delle sue lezioni di storia, Tibau aveva acquisito un grande amore del Brasile, accarezzando il sogno di una Società di Folclore, destinata a raccogliere i canti, le tradizioni e la poesia popolare della nostra terra. Coltivare e festeggiare le ricorrenze familiari col gusto nazionale e le rispettive vivande. Possessore di quella fortuna, fonda la società, per la quale è sfruttato da giornalisti, poeti, studenti, burlato dai ministri e funzionari, ai quali si è diretto per chiedere una sovvenzione.


Sebbene, per certe caratteristiche della trama, la figura del maggiore Tibau possa forse costituire una prima idea del giovane scrivano Isaías Caminha, anch’egli avviato a studiare medicina e poi spinto dalle circostanze della vita a svolgere un altro lavoro, il personaggio mostra la propensione che in Policarpo assumerà poi un ruolo centrale: il «grande amore del Brasile» e il desiderio di perpetrarne le tradizioni.
Almeno un altro appunto del Diário íntimo, in quel 1905, è riconducibile al maggiore romanzo dello scrittore. Le considerazioni, il 17 luglio, sulle reazioni che la notizia della morte del «Seu» Silva, un capufficio, suscita nel personale dello stesso ufficio:


Ciascuno, nell’udire quelle parole, che egli aveva pronunciato con leggerezza, alzò la testa: le loro fisionomie - pessimi attori! - si sforzavano d’assumere un’aria di compunzione. Nessuno sente. A dispetto di vivere, o aver vissuto con lui dieci, venti, trent’anni, l’amicizia non gli legò le anime. Non c’erano affinità tra i loro spiriti e i piccoli attriti di carriera li separarono ancora di più.


La stessa ipocrisia, e in fondo la stessa indifferenza, dei colleghi dell’Arsenal da Guerra dove lavora Policarpo: quelli che per le sue manie indianiste l’hanno soprannominato Ubirajara.
Nel lustro che intercorre tra questi spunti e la stesura del Quaresma, Barreto scrive tre romanzi: i primi due, Clara dos Anjos (1904-5) e Vida e morte de M. J. Gonzaga de Sá (1906-7), vedranno la luce, con sostanziali o parziali rielaborazioni, solo molti anni più tardi; il terzo, Recordações do escrivão Isaías Caminha, sarà il primo ad essere dato alle stampe, nel 1909. Se il personaggio dell’anziano baccelliere Gonzaga de Sá, scapolo, scettico e ammiratore di Voltaire, ha qualche vaga affinità con Policarpo nella febbre di conoscenza e nella scelta del celibato, quello di Isaías Caminha, giovane mulatto di provincia che si reca a Rio intenzionato a diventare dottore in Medicina, presenta analogie sul piano dello straniamento: ma, rispetto al nostro maggiore, Isaías, «albero senza radice» nella metropoli carioca, è una figura di ben diversa causa.
Nel 1910 il Diário íntimo registra sul Quaresma le prime annotazioni dirette; l’autore, che è in rapida fase di elaborazione mentale, se non già di stesura (il romanzo - scriverà sullo stesso nel marzo del ’16 - «fu scritto in due mesi e poco»), appunta ad esempio: «Quaresma è fatto procuratore dell’Amazzonia dal partito della concentrazione. I partiti. Brasiliani, peruviani benché boliviani [...].» (senza data). Questo richiamo all’Amazzonia e ai boliviani porterebbe a supporre come, in un primo tempo, Barreto avesse situato il suo personaggio in un momento storico un poco più avanzato e prossimo al suo: non già il 1892 della Revolta da Armada, dunque, ma il 1900 o poco dopo, l’epoca della questione dell’Acre. Poco dopo, un altro appunto svela come lo scrittore avesse pensato di far salire Policarpo su un pallone aerostatico: «Quando sale sul pallone e vede Rio, egli ricorda le letture, evoca la grandezza del Brasile e il suo sogno torna con forza, etc.». È sempre sul sogno di Policarpo che Barreto punta il dito: «Egli pensava di coltivare l’ambiente, la sua casa. Il suo sogno è così forte! [...] Egli non comprendeva di vedere con gli occhi del sogno, non detraeva la rifrazione di quell’atmosfera singolare, per apprezzare la realtà».
L’ultimo appunto sul romanzo presente nel Diário íntimo risale al 1918 ed è ancora senza data: in esso l’autore ricorda come «Il dottor Luís Ribeiro do Vale, nella sua tesi di dottorato nel 1918 (anno scolastico del 1917), si riferisce al mio libro Policarpo Quaresma. Il titolo è Psicologia Mórbida na Obra de Machado de Assis».


3) La famiglia letteraria di Quaresma: tangenze e differenze.
Secondo Albert Einstein «ci sono due modi per vivere la vita. Uno è credere che non esista miracolo. L’altro è credere che tutte le cose sono un miracolo» (3). Policarpo si trova senza dubbio tra coloro che credono miracoli molte cose, in riferimento al Brasile; il suo singolare personaggio appartiene a una famiglia letteraria non troppo cospicua, che affonda le radici nella notte dei tempi: quella degli idealisti.
La frase posta in epigrafe al romanzo, tratta dalla biografia Marc-Aurèle et la fin du monde antique (1882) di Ernest Renan, recita: «Il grande inconveniente della vita reale e ciò che la rende insopportabile all’uomo superiore è che, se si applicano i princìpi dell’ideale, le qualità diventano i difetti, tanto che molte volte l’uomo integro realizza e riesce meno bene di colui che ha per scopi l’egoismo e la volgare routine» (4). Una frase ad hoc per introdurre e spiegare il motivo della triste parabola del nostro, «uomo superiore» non già per intelligenza, ma proprio in quanto «integro»: e perciò, in un mondo dominato da «egoismo» e «volgare routine», predestinato solo a soccombere.
Base dell’idealista è la difesa e l’affermazione dei princìpi nei quali crede, giacché per lui «un’idea è un monumento più sacro di una cattedrale» (5); per quanto, rispetto alla realtà circostante, sovente la sua visione sia, o possa sembrare, astratta e utopistica. Già le letterature antiche e classiche presentano vividi esempi di personaggi idealisti: come l’Antigone di Sofocle, pronta, nel suo fermo credere alle leggi divine, a trasgredire agli ordini del re Creonte, a costo della vita. L’idea di Quaresma - o meglio, dunque, il suo credo - è la stessa espressa nella poesia Pátria da Olavo Bilac, poeta molto stimato da Lima Barreto: «Ama, con fede e orgoglio, la terra in cui nascesti» (6). In effetti, Quaresma ama la sua patria in ogni aspetto e peculiarità, fino alla mania, al travisamento, al grottesco.
Un tentativo di ricostruire l’albero genealogico del personaggio cercando i suoi antenati letterari canalizza le ricerche su due rami: quello dell’idealismo, appunto, e quello della patologia: ma in Policarpo l’uno e l’altro a volte s’intersecano. Nel caso del secondo, è da presumere che all’origine della fissazione sulla patria e delle esagerazioni da essa originate si trovi l’Elogio della follia (Enkomion morias seu laus stultitiæ, 1511) dell’umanista e teologo tedesco Geert Geertsz, ovvero Erasmo da Rotterdam (1469-1536). In questa brillante e mordace satira contro errori e superstizioni della filosofia scolastica e della dottrina cattolica, la Follia, resa figura allegorica grazie all’uso della maiuscola, si esprime in prima persona, presentandosi come avulsa dal sistema delle norme sociali e morali, con un’assenza di regole - così lascia intendere Erasmo - che è spesso una sorta di superiorità, se confrontata con le apparenze e i controsensi del mondo, di un mondo dove per somma contraddizione la stessa normalità viene considerata un tipo di follia molto diffusa. Valutando da quest’asserzione, si potrebbe concludere che la singolarità di Policarpo, presenti o meno in sé qualche sintomo di follia, sia dovuta proprio allo stato di normalità del personaggio, il cui buon senso diviene grottesco in virtù della diffusa anormalità degli altri: che è probabilmente quanto, in certe occasioni, tende a farci credere lo scrittore.
La vita, dice Erasmo, non è che follia, e la follia è vero senno, conduce alla saggezza e governa il mondo, avendo «il dono di rallegrare gli Dei e gli uomini» (7); questo, giacché essa «consiste nel farsi trascinare dalle passioni», e Giove, per far sì che «la vita umana non fosse del tutto improntata a malinconica severità, [...] infuse nell’uomo molta più passione che ragione: press’a poco nella proporzione di mezz’oncia ad un asse». Ora, la logica del pensiero erasmiano vuole come, essendo «pacifico che tutte le passioni rientrano nella sfera della follia», «ciò che distingue il savio dal pazzo è che questi si fa guidare dalle passioni, mentre il primo ha per guida la ragione». Se è impossibile ritenere la ragione di Policarpo inferiore alla sua passione «nella proporzione di mezz’oncia ad un asse», essendo egli un tipo solerte, equilibrato e tranquillo, stimato e rispettato dai colleghi dell’Arsenal de Guerra per «il suo decoro, la modestia e onestà del suo vivere» (I, 1), nondimeno, quando Erasmo asserisce che «uno è tanto più felice quanto più la sua follia è multiforme», perché la felicità dell’uomo non dipende dalle «cose stesse», bensì «dal nostro modo di vederle», si deve riconoscere che al nostro personaggio il discorso si attaglia.
Ma, ciò detto, con l’allegorica Follia dell’Elogio Policarpo non ha null’altro da spartire; egli infatti non possiede alcuno dei vizi, anch’essi personificati, che le si accompagnano: come la Vanità (o Filautia: eccessivo amore di se stesso), l’Adulazione (Kolakia) e la Licenziosità (Tryphe), è assai di rado sfiorato dall’Intemperanza (Komos), e soprattutto non sa neppure cosa sia l’Accidia (Misoponia).
Senza dubbio, il ‘male’ di Policarpo ha un’origine meno suggestiva e preziosa, anzi piuttosto comune: sulla base della sommaria descrizione fornita dall’autore nel V capitolo della Prima Parte, che tratta del soggiorno di Quaresma nell’Hospício Nacional de Alienados di Praia das Saudades, oggi la si definirebbe una forma di nevrosi, aggravata in un secondo momento da delirio e manie persecutorie; e se in esso si può, forse, rintracciare anche un briciolo di hegeliana Entfremdung, la traduzione rinvia comunque al concetto di estraniazione: una situazione dello spirito tipica della realtà contemporanea, che costituisce appunto l’anticamera di alcune patologie. D’altronde Lima, che per via del padre aveva già conosciuto l’ambiente manicomiale, e che in seguito avrebbe per due volte sperimentato di persona l’esperienza del ricovero, a proposito del ritorno di Quaresma dall’Hospício scrive:


Il maggiore uscì ancora più triste di quanto aveva vissuto tutta la vita. Di tutte le cose tristi da vedere, al mondo, la più triste è la pazzia; è la più depressiva e pungente.
Quella continuazione della nostra vita tale e quale, con un disordine impercettibile, ma profondo e quasi sempre insondabile, che la rende del tutto inutile, fa pensare a qualcosa più forte di noi, che ci guida, che ci ostacola e nelle cui mani siamo semplici trastulli. In diversi tempi e luoghi, la pazzia venne considerata sacra, e in questo deve aver ragione nel sentimento che s’impossessa di noi quando, nel vedere un pazzo sragionare, pensiamo subito che ormai non è lui che parla. È qualcuno, qualcuno che vede per lui, interpreta le cose per lui, sta dietro di lui, invisibile!... (II, 1)


Valutando su questa indicazione di percorso, il primo pregnante riferimento è al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616): un richiamo così diretto e immediato che lo stesso Barreto, nell’appunto sul Diário íntimo del marzo 1916 a proposito del suo romanzo, ricorda non senza un briciolo di compiacimento come «I critici generosi [...] si ricordavano solo del Don Chisciotte». Ma cosa avvicina il nostro personaggio alla grande figura creata da Cervantes, protagonista del romanzo El ingenioso hidalgo don Quiijote de la Mancha apparso, com’è noto, in due parti negli anni 1605-15?
Senza dubbio, tra Don Chisciotte e Policarpo ci sono alcune affinità, a dispetto della differenza sostanziale della loro mania: giacché l’ossessione del primo per la cavalleria è totalizzante e ha nel fatto di rendere onore alla propria terra natale - «così per l’accrescimento del suo onore, come per il servizio della sua repubblica» (8) - solo uno dei motivi scatenanti, mentre in Policarpo la fissazione patriottica riesce ad un tempo monocorde e onnicomprensiva, abbracciando ogni ramo del sapere: dalla storia alla geografia, dalla letteratura alla lingua, dalla cucina ai canti e alle feste popolari. In Alonso de Quijano, il progressivo distacco dalla realtà si manifesta attraverso la lettura di determinati libri: come l’Amadigi di Gaula e il Palmerino d’Inghilterra; con effetti subito meno nocivi, e tuttavia non meno determinanti, Policarpo legge l’Arte y Dicionario de la Lengua Guarany ó más bien Tupy di Montoya e l’História da América Portuguesa di Sebastião da Rocha Pita.
L’idealismo che spinge i due personaggi a battersi contro le avversità umane e del caso, travalicando come possono le difficoltà che incontrano, è mosso da un’affine nobiltà d’animo: se Don Chisciotte si vota alla difesa dei deboli e degli oppressi, Policarpo dedica molte energie a promuovere e celebrare la patria brasiliana. Ma mentre il primo trova in Sancho Panza un suo - non solo dialettico - contraltare, colui che bilancia i voli della sua delirante fantasia con le sapide osservazioni dettate dal suo rustico e poltronesco buon senso, il secondo non ha in pratica alcun vero interlocutore: i suoi parenti e i suoi amici più cari, pieni come sono di rispetto, devozione e soggezione, non s’incaricano di riportarlo alla realtà, come con l’eroe del Cervantes tentano più volte, e alla fine ottengono, il curato, il barbiere e il baccelliere Carrasco; Policarpo, in pratica, è perciò lasciato a se stesso: solo dopo il suo arresto e l’accusa di tradimento Coração dos Outros e la figlioccia Olga si profonderanno, invano, per salvarlo. Egli non ha, tantomeno, una Dulcinea, l’intenso affetto che lo lega ad Olga essendo quello di un padre verso la figlia che non ha mai avuto. La dinamica del suo straniamento dalla realtà non è scandita da azioni agonistiche, come accade al volitivo Don Chisciotte, che scambia per giganti prima dei mulini a vento eppoi degli otri, e due greggi di pecore e montoni per altrettanti eserciti, bensì da un’escalation d’iniziative: prima di carattere puramente culturale, come lo studio della chitarra, della lingua e dei costumi tupi, e la petizione alla Camera per l’adozione del tupi-guarani quale lingua nazionale; in seguito di tipo agricolo, nella sua lotta per rendere fertile l’arido e indocile terreno del suo podere di Sossego; infine da alcuni scritti indirizzati al presidente della neonata República, il maresciallo Peixoto: prima una proposta manoscritta di riforma agricola, quindi la lettera per denunciare l’arbitrio delle esecuzioni dei prigionieri coinvolti nella Revolta da Armada, che gli vale la fucilazione.
D’altronde, se Don Chisciotte, anche prima del rinsavimento finale, mostra a sprazzi una certa saggezza (per esempio nel discorso sulle armi e le lettere che fa all’osteria, - I, capp. XXXVII-XXXVIII - o più avanti, in certe osservazioni contenute nei dialoghi col baccelliere Carrasco e con Sancho) (9), Policarpo, per quanto stravagante, non è quasi mai privo di senno; il lettore può anzi spesso apprezzarne le singolari doti di buon senso. Per cogliere bene tangenze e differenze tra i due personaggi non c’è come paragonare i loro atteggiamenti. Nel conversare, Don Chisciotte è vario, sagace, onnicomprensivo e avvolgente, quanto Policarpo - «dolce, buono e modesto» - è asciutto e un po’ timido; il cavaliere errante parla con tutti, di buona o di mala grazia, e non si perita di esprimere le proprie opinioni; il patriottico maggiore, in certi frangenti si mostra invece impacciato e restìo: specie quando l’argomento non riveste per lui alcun interesse o desta addirittura qualche fastidio: come a Curuzu, dovendo barcamenarsi tra opposte fazioni politiche. Don Chisciotte è gradevolmente ciarliero e ama fare sfoggio della propria cultura, non solo in materia di cavalleria e romanzi cavallereschi, ma su qualsiasi tema; monomaniaco, Policarpo s’illumina solo quando l’oggetto della conversazione è il Brasile. In entrambi, c’è una certa propensione ad istruire: più pedagogica in Don Chisciotte, sempre pronto a fare osservazioni sulla morale, sulla vita pubblica e sulla società, e che in proposito non lesina le sentenze; più didattica in Policarpo, il quale, a dispetto del suo carattere alquanto riservato, nell’ufficio in cui lavora ha di costume, «per l’ora del caffè, quando gli impiegati lasciavano gli scrittoi, trasmettere ai colleghi il frutto dei suoi studi, le scoperte che faceva, nel suo ufficio di lavoro, di ricchezze nazionali» (I, 1).
Se il maggiore non ha le velleità guerresche di Don Chisciotte, come lui ha però l’impulso di agire, di opporsi ogniqualvolta gli si para davanti lo spettacolo delle arretratezze e delle ingiustizie sociali; ciò accade ad esempio quando, a Curuzu, considera «la miseria generale, l’assenza di coltivazioni, la povertà delle case, l’aspetto triste, abbattuto della gente povera»:


Pensò nell’essere uomo. Se lo fosse passerebbe lì e in altre località mesi ed anni, indagherebbe, osserverebbe e certo riuscirebbe a trovare il motivo e il rimedio. Quella era una situazione di contadini del Medioevo e inizio della nostra epoca; era il famoso animale di La Bruyère che aveva aspetto umano e voce articolata... (II, 3)


D’altra parte, Policarpo mostra in più occasioni di aborrire la politica; e applica infatti la sua vocazione riformista nello studio di migliorie che attengono al cambio di lingua e al sistema agricolo, senza tuttavia prendere partito a proposito di questo o quello schieramento; ma a dispetto di ciò le rare opinioni che trapelano sulla sua idea dello Stato lo mostrano decisamente conservatore: egli pensa con rimpianto all’impero di Pedro II (II, 5) - chissà se sapeva di quanto l’augusto sovrano amasse e coltivasse la lingua tupi - , considera «un flagello» il suffragio universale (II, 1) e sogna per il Brasile un «governo forte, fino alla tirannia» (II, 4).
Ma le differenze di carattere tra Alonso de Quijano-Chisciotte e Policarpo dipendono in larga misura dalle rispettive origini e dal diverso contesto geografico e storico in cui i personaggi si trovano a vivere: il primo è un rappresentante della modesta nobiltà di provincia spagnola sotto il regno del timido, pigro, incerto e pacifico Filippo III; il secondo un tranquillo funzionario statale nella precaria Rio de Janeiro della República da Espada. Pur mostrando in varie occasioni di possedere una democrazia dell’anima, Don Chisciotte non scorda mai la sua nascita aristocratica: ma gli si deve dare atto di rammentarla, più che per i privilegi, per i doveri di lealtà e coraggio a cui il rango lo astringe. Il «singolare e misantropo» Policarpo, sottosegretario di «nessuna ambizione politica o amministrativa» (I, 1), è un esponente di quella piccola borghesia carioca proliferata con tacita caparbietà nei quadri della burocrazia sotto la bonaria ala imperiale di Pedro II, che i tumulti legati al consolidamento repubblicano avrebbero reso perplessa e diffidente. Con le sue gesta di cavaliere, Don Chisciotte vorrebbe confermare e conservare l’onore di Spagna; nel novero del «sentimento serio, grave e assorbente» (I, 1) che prova verso la patria, Policarpo mira invece, con un fervore d’iniziative, ad additare e promuovere quello del suo paese.
Un’altra figura cervantina è da porre in collegamento con Quaresma: quella di Tomás Rodaja, protagonista di una delle più riuscite Novelle esemplari, Il dottor Vetrata (El licenciado Vidriera). Non a caso Barreto, che conosceva e amava l’opera dello scrittore spagnolo, il 2 luglio 1900 apriva il suo Diário íntimo ponendo in epigrafe, assieme ad un brano del Vangelo di S. Matteo, uno scambio di battute tratte da questo racconto.
La storia di Tomás è quella di un ragazzo povero che, dopo aver viaggiato per l’Italia e le Fiandre al seguito di un capitano di fanteria, torna in Spagna e a Salamanca ottiene il baccellierato in giurisprudenza; qui una donna, innamoratasi di lui, per essere corrisposta gli fa ingerire un filtro d’amore, col risultato di fargli perdere la ragione: Tomás infatti finisce per credere di avere il corpo di vetro, e timoroso della sua fragilità evita qualsiasi contatto, adattandosi a una vita piena di stramberie, ma nel contempo dando prova di una straordinaria acutezza di spirito. Dopo due anni, grazie all’aiuto d’un frate recupera il senno: ma il saggio dottor Rueda (ruota: questo il suo cognome) piace meno dello stravagante dottor Rodaja (rotella: così, da folle, veniva chiamato Tomás); sicché al disilluso baccelliere non resta che raggiungere nelle Fiandre l’amico capitano Valdivia, arruolandosi nell’esercito.
Non si hanno date sicure sulla creazione di questo personaggio, ma, com’è stato opportunamente osservato da Carolina María Schindler ed Alfonso Martín Jiménez (10), gli indizi portano a situare la messa a punto del racconto verso la metà del 1610: ovvero, dopo l’apparizione del Quijote apocrifo di Alonso Fernández de Avellaneda alias Jerónimo de Pasamonte, quando Cervantes lavorava anche alla seconda parte del suo grande romanzo. Secondo il Valbuena Prat, Vetrata è «il Don Chisciotte dello studio e dell’ingegno» (11): un individuo intelligente, solerte e curioso del mondo, che dopo aver viaggiato e conosciuto, divenuto baccelliere, è «preso più dai libri che dai passatempi». Questi aspetti del carattere sono comuni in Tomás quanto in Policarpo, e così l’essere il primo restìo alla corte - «ho dei pudori e non so leccare i piedi» (12) - quanto il secondo lo è alla politica; a rendere viepiù interessante il loro accostamento è il fatto che entrambi siano vittime del grottesco: Tomás, per esempio, perde la ragione a causa di una cotognata di Toledo alla quale è stato mischiato il filtro d’amore.
Tanto Tomás-Vetrata quanto Policarpo hanno con gli altri rapporti spesso difficili. Mentre però Tomás reagisce ai lazzi dei monelli che lo tormentano e ai dileggi del popolaccio con frasi quasi sempre pungenti, Policarpo, davanti a critiche e sottesi scherni delle persone con le quali egli non è in sintonia, nella sua modestia tace o cerca di giustificarsi, anche quando, magari, non ne avrebbe del tutto motivo: la sua reazione più marcata, di misurato risentimento, è al sentirsi chiamare come il protagonista eponimo di uno dei più noti romanzi indianisti di Alencar, Ubirajara: «- Signor Azevedo, non sia leggero. Non vorrà mettere in ridicolo quelli che lavoravano in silenzio, per la grandezza e l’emancipazione della Patria» (I, 1).
Per quanto folle, Tomás è sempre ben consapevole di possedere del raziocinio; quando il marito della rigattiera gli dice: «avete più del mascalzone che del matto», la sua risposta è: «Non me ne importa un fico [...], mi basta non essere scemo». Tutto concentrato in se stesso e con un ingenito rispetto nei confronti dei superiori, Policarpo invece è sempre pronto all’esame di coscienza; quando, avendo egli arbitrariamente trascritto in lingua tupi un documento ufficiale, che è stato censurato dal Ministero, il direttore dell’Arsenal de Guerra (colpevole d’omessa verifica, e ancor prima ignorante) dopo averlo redarguito gli sciorina arrogantemente in faccia il suo cursus honorum, la sua prima e tutta interiore reazione è lo sbigottimento:


Quaresma era dolce, buono e modesto. Mai era stata sua intenzione dubitare della dottrina del suo direttore. Egli non aveva alcuna pretesa d’essere dotto e aveva pronunciato la frase per iniziare a scusarsi; ma, quando vide quell’alluvione di sapere, di titoli, a galleggiare in acque così furiose, perse il filo del pensiero, la parola, le idee e nulla più seppe né poté dire. (I, 4)


Insomma: tacita ma implicita ammissione di colpevolezza, e Policarpo esce dall’ufficio del superiore «abbattuto come un criminale».
Con la sua sapida sentenziosità, Tomás-Vetrata si dimostra in linea con l’altra e maggiore figura cervantina, Don Chisciotte. Mentre Policarpo, quando con gli intimi e con alcuni colleghi assume un’atteggiamento didattico, non ha mai né lo spirito del primo né la simpatica prosopopea del secondo: il suo desiderio è solo d’informare e la finalità che lo anima è esclusivamente patriottica. Per trovare un idealista dallo spirito e dal carattere in qualche modo affini al suo, occorre compiere un balzo in avanti nel tempo di un paio di secoli. Prima, infatti, tra i personaggi proposti nelle letterature occidentali, il solo tratto in comune con lui è ancora quello della maniacalità, della smania, insomma di quello stato di alterazione dello spirito che sulla scorta del già citato pensiero erasmiano - la differenza tra il savio e il pazzo è che quest’ultimo «si fa guidare dalle passioni, mentre il primo ha per guida la ragione» - allora era considerato l’anticamera della follia, e spesso veniva addirittura confuso con essa.
Così, nel Seicento del Quijote, troviamo un altro esempio di questo tipo nel principale romanzo di uno scrittore tedesco, che per ispirarsi guardò appunto alla Spagna: Hans Jacob Christoffel von Grimmelshausen (1621-76). Capostipite degli schelmenromane (romanzi d’avventura con forti elementi satirici e intento morale, basati sulle peripezie di personaggi un po’ balordi e furfanteschi, a imitazione delle novelle picaresche spagnole), Der abentheurliche Simplicius Simplicissimus (1669) di Grimmelshausen ha per sfondo la Guerra dei Trent’anni (1618-48). Il suo eroe, Simplicio, che si chiama in realtà Melkior Sternfels von Fuchsheim e si esprime in prima persona, è un orfano allevato da incolti contadini, cui capita ogni sorta di accidente, non escluso un viaggio fantastico al centro della terra dalle profondità del lago di Mummelsee (il lago senza fondo), dove ottiene dal re dei Silfi una pietra iridescente capace di far scaturire l’acqua; ma diversamente dai Lazarillo e dai Guzmán, egli, pur descrivendo gli orrori e le penurie della guerra e la delittuosa abbondanza dei potenti, nel racconto privilegia la sua disordinata, solitaria e ansiosa ricerca dell’assoluto, l’abbandono in Dio.
Anche prescindendo dalle sue a volte incredibili avventure, Simplicio risulta diverso e lontano da Policarpo: egli non è altrettanto idealista, e i casi della vita, l’indole avventurosa e la mancanza di studio lo rendono scapestrato, cosicché la sua maturazione umana avviene molto gradualmente, in virtù delle vicissitudini che gli occorrono; ma essendo intelligente e intuitivo, impara assai presto come Unbeständigkeit allein beständig («L’instabilità è la sola cosa stabile», frase posta in epigrafe al VI libro). Così, tra gli espedienti che mette in atto per sopravvivere, c’è anche quello di fingersi folle. Divenuto paggio eppoi buffone del governatore di Hanau (che è suo zio: ma i due ignorano il loro legame di sangue), Simplicio si permette, da folle, delle irriverenze che, ove saputo sano, avrebbero potuto costargli molto; appunto questo è il suo gioco, la follia essendo per lui il mezzo che gli consente di barcamenarsi e schernire: «[...] giunsi a questa ferma persuasione, che Dio nella sua bontà dà a ciascuno di noi, nella condizione a cui Egli l’ha chiamato, tanta intelligenza quanto è necessaria alla sua conservazione [...]» (13).
Ora, Policarpo ha sempre creduto nel proprio buon senso: ma l’essere considerato ‘bizzarro’ porta buona parte dei suoi interlocutori a guardarlo con sospetto. Che le sue stranezze abbiano un presupposto reale lo afferma lo stesso autore, ad esempio quando descrive il modo con cui il suo personaggio si applica ai lavori agricoli nell’orto di Sossego:


Nella sua intelligenza c’era una necessità del tortuoso, dell’apparentemente facile; e in tutto egli metteva quell’attitudine della sua psiche, tanto nel parlare, con grandi perifrasi, come nelle aiole che tracciava, irregolari, maggiore qui, minore là, fuggendo alla regolarità, al parallelismo, alla simmetria, con un raccapriccio artistico. (III, 4)


Tuttavia, a determinare un’inconsapevole difesa del maggiore è proprio Grimmelshausen, fornendo a Simplicio quest’opinione sulla follia:


Credo che non vi sia nessuno al mondo che non abbia un ramo di pazzia; perché siamo tutti fatti allo stesso modo, ed io posso vedere dalle mie pere se quelle degli altri sono mature. [...] Non è un pazzo chi ha delle idee bizzarre, [...] ma chi le lascia vedere è considerato un pazzo, perché v’è chi le tiene ben nascoste, mentre altri le manifesta solo a metà. Quelli che reprimono interamente il folletto interiore, sono degl’intrattabili musoni; quelli che gli permettono talvolta di far capolino e di respirare un momento perché non soffochi dentro di loro, sono secondo me le persone migliori e più sagge (14).


Pigliandolo per buono, dovremmo porre Policarpo nel numero dei saggi, il suo errore consistendo, semmai, nel mostrare senza timore le proprie stravaganze.
Ma ecco la crisi mistica di Simplicio, la sua meditazione e il suo addio al mondo, nelle parole ch’egli prende in prestito dallo storico e moralista spagnolo Antonio de Quevara, predicatore alla corte di Carlo V:


Dio ti guardi, o mondo; ho a noia la condizione che tu ci dai: la vita è un miserabile pellegrinaggio, un’esistenza instabile, dura, aspra, fugace e impura, piena d’afflizione e d’errore, che si può chiamare piuttosto una morte che una vita [...]. Non ti basta l’amarezza della morte, da cui sei attorniato e penetrato, ma ancora illudi i più con le lusinghe, gli allettamenti e le false promesse. Dalla coppa d’oro che tieni in mano, dai loro da bere amarezza e menzogna, e li rendi ciechi, sordi, folli, storditi e dissennati. (15)


Queste espressioni accorate, sebbene qua e là di maniera, si possono porre a confronto con le amare considerazioni di Policarpo nella lettera che egli indirizza alla sorella dopo il suo ferimento in battaglia:


Questa vita è assurda e illogica; io ho ormai paura a vivere, Adelaide. Ho paura, perché non sappiamo dove siamo avviati, ciò che faremo domani, in quale modo abbiamo da contraddirci dall’alba al tramonto... [...] Nessuno comprende ciò che voglio, nessuno ha voglia di penetrare e sentire; passo per folle, sciocco, maniaco e la vita procede inesorabilmente con la sua brutalità e squallore. (III, 4)


La solitudine di Policarpo si acuisce nell’imminenza della sua fucilazione. Egli vi è astretto dall’impossibilità di comunicare coi suoi pochi intimi (la sorella Adelaide, la figlioccia Olga, l’amico Ricardo), ma anche, in eguale se non maggiore misura, dalla consapevolezza di non trovarsi più in sintonia col mondo: così, nel considerare sconsolato il fallimento della propria esistenza gli sovvengono i pensieri più universalmente pessimistici:


Si avviava a morire, chissà se quella sera stessa? E che cosa aveva fatto, lui, della sua vita? Nulla. L’aveva trascorsa tutta dietro il miraggio di studiare la Patria, per amarla e volerla molto, nell’intuito di contribuire alla sua felicità e prosperità. Aveva speso in questo la sua giovinezza, ed anche la sua virilità; e, adesso che si trovava nella vecchiaia, ella come lo ricompensava, come lo premiava, come lo decorava? Uccidendolo. [...] Si ricordò delle sue cose di tupi, del folklore, dei suoi tentativi agricoli... Di tutto quello, gli restava nell’anima una soddisfazione? Nessuna! Nessuna! (III, 5)


Una diversa forma di solitudine attende Simplicio al termine delle sue avventure, ed è una solitudine, se non proprio cercata, almeno serenamente accolta: infatti, naufragato su un’isola deserta dell’Atlantico meridionale, e rimasto del tutto solo, decide di non muoversi più di lì, disgustato dalla brutalità e dalla stupidità umana; egli vive così un’esistenza di eremita, preparandosi a una «buona morte».
Ma la solitudine, quando è indotta da particolari circostanze della vita può anche portare a singolari risultati, facendo scoprire all’individuo, con la misura delle sue risorse, anche quella della propria interiorità. È quanto avviene al protagonista eponimo di uno dei romanzi più fortunati del XVIII secolo: il Robinson Crusoe (The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, 1719) di Daniel De Foe (1660-1731); la cui storia, s’è visto, viene in qualche modo anticipata proprio da Grimmelshaushen nella «Continuazione e fine» che segue il V libro del Simplicissimus.
Cosa può avere in comune con Policarpo il naufrago nato dalla penna del grande scrittore inglese? Vestito di pelli di capra, col fucile in spalla, un grande cappello e un ombrello di foglie che lo riparano dal sole, Robinson trascorre solitario, ignorato e sperduto ventitré dei suoi ventott’anni di permanenza su un’isola della costa venezuelana presso alla foce dell’Orinoco, dove ha fatto naufragio la nave su cui s’era imbarcato. Grazie al suo spirito d’iniziativa e alla forza di volontà, non solo riesce a sopravvivere in un ambiente all’apparenza ostile, ma improvvisandosi carpentiere, cacciatore, allevatore e coltivatore, si organizza la vita in modo tale da renderla perfino gradevole. Quella che Jean-Jacques Rousseau definì nell’Emile come «il più felice trattato di educazione naturale» (16) è una storia di lotta per la vita, e insieme di autoaffermazione; la capacità organizzativa e la convinzione, senza dubbio pre-illuministica, dell’efficacia dell’indagine e dell’applicazione, portano Robinson a formulare riflessioni come questa:


[...] Senza un tavolo non potevo mettermi né a mangiare né a scrivere, né fare varie altre cose con molto piacere: perciò mi misi al lavoro. E qui devo osservare che poiché la ragione è la sostanza e l’origine della matematica, così squadrando e calcolando ogni cosa con la ragione e giudicandone nel modo più razionale, ogni uomo può col tempo diventare padrone di ogni arte meccanica. (17)


Questo rilievo non sarebbe spiaciuto al Policarpo di Sossego, i cui propositi di riforma agricola si basavano tanto sull’adozione di efficaci strumenti metereologici quanto sull’impiego di moderni macchinari. Ma la vicenda di Robinson Crusoe può anche leggersi come una sorta di parabola sulla ridiscussione del rapporto tra l’uomo e la natura: dove questi, per accostarsi ad essa nel modo più opportuno è chiamato ad un fiducioso abbandono alla sua purezza originaria: insomma, un’anticipazione del pensiero di Rousseau sul «buon selvaggio» contrapposto all’uomo sociale che, nato libero, «è ovunque in catene» (18). Ora, il ritiro di Policarpo a Curuzu echeggia in certa misura questa visione. Colpito nella sua dignità d’impiegato e dolorosamente allontanato dal lavoro, perciò messo in discussione nel suo stesso ruolo sociale, dopo un ricovero di qualche mese all’Hospício egli abbandona la città e si trasferisce nel ‘buen retiro’ di Sossego, dove con febbrile entusiasmo pianifica una serie d’interventi per la bonifica e lo sfruttamento agricolo del terreno che gli appartiene:


Oh! terra benedetta! Come accade che tutte le persone vorrebbero essere impiegati pubblici, marcire in una banca, soffrire nella loro indipendenza e nel loro orgoglio? Com’è che si preferiva vivere in case strette, senz’aria, senza luce, respirare un ambiente epidemico, sostentarsi di cattivi alimenti, quando si poteva così facilmente conseguire una vita felice, piena, libera, allegra e salutevole?
Ed era adesso che lui giungeva a questa conclusione, dopo aver sofferto la miseria della città e la castrazione degli uffici pubblici, per tanto tempo! Ci era arrivato tardi, ma non al punto da non poter prima della morte avviare conoscenza con la dolce vita campestre e la feracità delle terre brasiliane. Pensò allora che erano stati vani quei suoi desideri di riforme capitali nelle istituzioni e nei costumi: ciò che era essenziale alla grandezza della diletta patria, era una forte base agricola, un culto per il suo copiosissimo suolo, per consolidare fortemente tutti gli altri obiettivi che ella aveva da raggiungere.
(II, 1)


Indizio di tale spirito di rinnovamento è il suo applicarsi anche manualmente - «inflessibile e coraggioso» - alla pratica dei lavori agricoli, con un’urgenza psicologica che lo pone davvero quasi sul piano di un Robinson in versione rustica, benché come un «Cincinnato inesperto», e con l’ausilio del placido ex schiavo Anastácio nel ruolo d’improbabile Venerdì. La seconda parte del romanzo segna infatti il tentativo del protagonista di attuare in privato un esperimento che sia d’esempio per l’incentivazione dell’economia brasiliana attraverso l’agricoltura.
Schiavitù necessaria per vivere, il precetto del lavoro viene da Policarpo puntualmente rispettato anche a Sossego: e, a dispetto della sua inesperienza,


[...] tanto è ferma nei nostri muscoli la memoria ancestrale di quel sacro lavoro di trarre dalla terra il sostentamento della nostra vita, che non fu impossibile a Quaresma di destare in sé l’attitudine, la maniera d’impiegare la zappa vetusta.
In capo a un mese, egli sarchiava ragionevolmente, non seguito, dall’alba al tramonto, ma con grandi soste di ora in ora che la sua età e la mancanza di abitudine richiedevano. (II, 1)


Se per Robinson Crusoe il lavoro di coltivatore è una necessità di sopravvivenza, per l’onesto ex sottosegretario dell’Arsenal de Guerra si rivela un toccasana utile a dimenticare le sue disavventure impiegatizie.
Il lavoro svolge una funzione non poi dissimile anche per Candido, il protagonista del racconto filosofico di Voltaire (François-Marie Arouet, 1694-1778) Candido o l’ottimismo (Candide ou l’optimisme, 1759). Vittima di sfavorevoli circostanze e della propria ottimistica ingenuità, al termine delle sue avventure dall’uno all’altro continente Candido, come un Simplicio meno contaminato da vizi e mali del mondo, risponde alle osservazioni sulla pericolosità della grandezza fatte dal filosofo ed ex precettore Pangloss con questa frase, che suggella il racconto: «Ben detto, [...] ma dobbiamo coltivare il nostro orto» (19). Il significato di questo reiterato richiamo alle necessità della vita pratica cozza con le idee professate da Pangloss di un mondo che «è il migliore dei mondi possibili» e dove «tutto va per il meglio». Dopo le numerose delusioni sofferte nella loro fede verso l’ottimismo razionalista, mentre il filosofo si ostina a fornire improbabili e meccaniche giustificazioni per difendere la bontà delle sue teorie, col suo appello al lavoro Candido distingue i sofismi sull’ideale dalla realtà del quotidiano, che, pare sottolineare, è da accettare quale unico status possibile; con ciò avallando implicitamente quanto detto poco prima dall’erudito Martino: «Lavoriamo senza ragionare; [...] è il solo modo di rendere la vita sopportabile»; prima ancora, nel corso d’una conversazione avuta dai tre con un anziano turco, quest’ultimo aveva affermato che il lavoro «tiene lontani tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno» (20). L’«inesperto Cincinnato» Policarpo, col suo culto per il «copiosissimo suolo» del Brasile, trova nei lavori agricoli non solo un nuovo modo per canalizzare proficuamente il suo entusiasmo patriottico, ma altresì per allontanare la noia (rendendo dunque «la vita sopportabile»), e, immune com’è da vizi, per scongiurare il bisogno, inorgogliendosi quando la vendita di una modesta partita di abacates di Sossego gli frutta un «ridicolo lucro».
La narrativa dell’Ottocento propone alcune delle più interessanti figure di idealisti. Il protagonista del Rùdin (1856) di Ivan Turgenev (1818-63), primo romanzo dello scrittore di Orël, è un personaggio fondamentalmente passivo, a dispetto del fascino che promana e delle idee che lo infiammano, non solo per la sua incapacità di dare forma concreta alle riforme radicali di cui si fa portatore, ma per la stessa indefinitezza dei traguardi che si pone. La differenza che si ravvisa con l’inconcludenza di Policarpo è essenzialmente nel carattere: infatti, mentre Dimitrij Rùdin predica bene e razzola male, Quaresma è un uomo tutto d’un pezzo, che deve i suoi insuccessi alla disarmonia in cui si trova con l’ambiente che lo circonda. Rùdin ha una personalità sfaccettata e contraddittoria: di volta in volta, si mostra codardo o coraggioso, subdolo o schietto, cinico o passionale; Policarpo non ha qualità prismatiche, ma sotto il profilo espressivo questa sua apparente monotonia è trasformata dall’autore in un formidabile punto di forza: al contrario del personaggio di Turgenev, e grazie alla disarmante onestà, nel suo operare egli non nutre mai dubbi. Si può definire Rùdin uno sconfitto sul piano morale, a causa della sua ambiguità di fondo; mentre la sola sconfitta di Policarpo è la disillusione, giacché moralmente egli esce vittorioso, la sua dignità non venendo mai meno in alcuna parte del romanzo.
Ciò che distingue Quaresma dai personaggi letterari presi in esame fino ad ora, tuttavia, è anzitutto il suo ruolo sociale: la figura dell’impiegato statale, infatti, è d’estrazione tipicamente borghese e come tale si afferma solo a partire dal primo Ottocento, soprattutto nella letteratura russa, dove la macchina burocratica dell’impero era particolarmente sfaccettata e farraginosa. Gli scrittori dell’epoca ne hanno fornito memorabili ritratti, come lo scroccone Chlestakov della commedia L’ispettore generale (1836) e l’umile copista Akakij Akakievic Basmackin del racconto Il cappotto (1837): due opere dovute alla penna di Nikolaj Gogol’, che si pongono, ciascuna a suo modo, alla base del realismo russo.
Come già per quest’ultimo, in Barreto la critica sociale si esprime anzitutto attraverso la satira. I suoi impiegati piccolo-borghesi, da Isaías Caminha a Policarpo ai protagonisti di alcuni racconti, vivono immersi in un mondo indifferente e spesso ostile, dove il rango, i titoli e il colore della pelle hanno sempre la preminenza sui rapporti umani. Ciò che preme allo scrittore è anzitutto denunciare la mancanza d’equità: a questo scopo, il grottesco è una formidabile arma di dissacrazione, utilissima per mettere a nudo quella che Gogol’ definiva poslost’, la volgarità umana; ma mentre il narratore russo raggiungeva il suo scopo con un processo d’accumulo e di focalizzazione di eventi tutto sommato banali, proprio per conferire valore d’emblema alla quotidianità del ceto medio-basso, nel brasiliano ogni indagine parte dal personaggio, non al di fuori di esso.
Lima mette in discussione l’atteggiamento di molti impiegati, non già il ruolo d’impiegato di per se stesso o in relazione al contesto. Sulla carica professionale di questi lavoratori statali in lui non vi è traccia di battute sferzanti come quella che, nel romanzo I preti di Stàrgorod (1866-72), Nikolaj Semënovič Leskov (1831-95) mette in bocca al perfido Termosiesov, quando questi consiglia alla Biziukina una carriera per Ermoscka, che crede suo figlio:


[...] Perché non fare l’impiegato statale? Gli impiegati sono benvoluti, prendono soldi e hanno una certa influenza. Altro che letteratura. A fare il letterato ci vuole ingegno, mentre in questo caso l’ingegno è addirittura d’impiccio, e nessuno lo vuole. Eh, sì, signora mia! gli faccia fare l’impiegato statale, mi dia retta! (II, 8) (21)


Non vi è, perché nel Brasile del «café-com-leite» il mestiere di funzionario pubblico non ha più il prestigio che godeva in epoca imperiale, quando rappresentava il sogno di molti, come ad esempio del ‘capoeira’ Firmo immortalato da Aluísio de Azevedo nel romanzo Il  cortiço (1890): il quale «non aveva mai ottenuto il posto di addetto in un’ufficio pubblico - il suo ideale! - Settantamila réis mensili: lavoro dalle nove alle tre» (22). Con l’avvento della República la distanza tra questa ed altre professioni si era sensibilmente ridotta e sfumata: essa, dunque, non suscitava più le invidie né gli impietosi ritratti meritati in quegli anni. Nondimeno, quando Policarpo trascrive un documento ufficiale in lingua tupi, l’arrogante reazione del direttore dell’Arsenal de Guerra e l’inefficenza mostrata dalla sua austera amministrazione richiamano piuttosto da vicino l’atmosfera e i paradossi della burocrazia imperiale magistralmente messa in caricatura da Artur de Azevedo in racconti come Dall’alto in basso (De cima para baixo).
Pochi anni dopo il Quaresma, nel racconto Lo spiritoso pentito (O engraçado arrependido, dalla raccolta Urupês, 1918) Monteiro Lobato proporrà tutt’altro paradosso: il protagonista, Pontes, a causa della sua fama di burlone non riesce a ottenere un impiego; alla fine un cugino bene introdotto nelle maglie della burocrazia gli promette un posto nell’esattoria federale, non appena avrà notizia del decesso di chi lo occupa attualmente, il maggiore Bentes, che è gravemente cardiopatico. Pontes decide allora di affrettare la pratica, e con uno dei suoi motti di spirito riesce a spedire all’altro mondo il povero maggiore; ma per la sua dabbenaggine si dimentica di avvisare del decesso il cugino, cosicché il posto viene assegnato ad un altro.
Torniamo però al secondo Ottocento e agli scrittori russi. Perché nell’opera di Fëdor Dostoevskij (1821-81), autore che Lima definì «gigantesco» (23), c’è un paio di personaggi quasi certamente tenuti presenti per la messa a fuoco di Policarpo.
Il primo, - Jakòv Petrovic’ Goljadkin, protagonista del «poema pietroburghese» Il sosia, un romanzo breve (1846, nell’edizione definitiva 1865-66) - è anch’egli un impiegato statale, che il vuoto della solitudine e la sottaciuta consapevolezza della propria mediocrità portano ad affondare inesorabilmente nella follia, causa dell’internamento in manicomio e della fine della sua inquietante parabola. In Goljadkin (cognome che, in russo, significa «nudo mendicante»), la caratteristica che sostanzia l’alienazione è lo sdoppiamento: disturbato da una mania di persecuzione, la sua mente produce una nuova personalità, un sosia di se stesso dall’indole, però, in antìtesi: tanto aggressivo e malvagio quant’egli, nella vita reale, è inerme e insicuro. Sostenere che il personaggio di Policarpo contempli, come quello di Goljadkin, uno sdoppiamento, è senz’altro fuori luogo; tuttavia, nel definirne la personalità Lima può senz’altro aver guardato al «Goljadkin uno» e al «Goljadkin due», operando una fusione tra alcuni aspetti delle rispettive nature: l’impaccio e le bizzarrie del primo e l’attivismo del suo alter ego.
Il secondo personaggio è il principe Lev Nikolaevic Myskin, protagonista del romanzo L’idiota (1868): un uomo - com’ebbe a definirlo l’autore in una celebre lettera (24) - «positivamente bellissimo» nell’umanità e nel carattere:


Dirò soltanto che tra tutti i personaggi umanamente belli della letteratura cristiana il più completo e perfetto è Don Chisciotte. Ma Don Chisciotte è bello unicamente perché allo stesso tempo è ridicolo. [...] Nel lettore si determina un sentimento di compassione nei confronti del personaggio umanamente bello che viene deriso e che non è cosciente del proprio valore, e con ciò stesso viene provocato anche un sentimento di simpatia verso di lui. Il segreto dell’umorismo consiste appunto nel provocare la compassione.


Dostoevskij, che ne ha fatto una delle sue figure indimenticabili, mostra come il termine «idiota» per lui non debba intendersi in accezione negativa, essendo Myskin onesto e disarmato, una creatura con occhi di fanciullo, candida ma non del tutto imprevidente; un essere percorso da bontà assoluta, spiritualmente superiore: tanto che, come ha osservato la Rossanda, «chi comincia ad ascoltarlo con un sorriso, termina serio» (25). Myskin è il primo ad ammettere d’essere stato un tempo «davvero simile a un idiota», non a caso s’interroga sul valore di quest’aggettivo, quando meditando sulla sua sensatezza si chiede: «ma quale idiota sono adesso, se io stesso capisco che mi si considera tale?» (26).
Il personaggio di Don Chisciotte, al quale lo scrittore si era riferito nella lettera appena citata, torna a proposito nell’episodio in cui Aglaia Ivànovna nasconde il biglietto di Myskin in un grosso libro, che solo più tardi s’avvede essere proprio il Don Chisciotte della Mancia: «Aglaia scoppiò a ridere, non si sa perché» (27); in realtà, il perché è evidente: la ragazza ha accostato il principe Myskin all’eroe di Cervantes, cogliendo l’involontario umorismo del raffronto tra le due figure. Più avanti, la stessa Aglaia ritorna a Don Chisciotte citando il “cavaliere povero” della poesia Romanza (1835) di Puskin: giacché esso «è lo stesso Don Chisciotte, ma un Don Chisciotte serio, non comico» (che il personaggio cervantino sia a tutti gli effetti sempre serio, ad Aglaia evidentemente sfugge):


[...] un uomo capace di avere un ideale e, in secondo luogo, una volta propostosi un ideale, di credere in esso, e, credendoci, di dedicargli ciecamente tutta la vita. (28)


Queste parole, che nella sostanza definiscono Myskin, potrebbero benissimo ritrarre anche Policarpo. Il dramma del nostro maggiore è che egli, privo di quell’«aspetto ridicolo» che Myskin ritiene d’avere agli occhi degli altri, a differenza di quest’ultimo non teme, col suo atteggiamento, «di compromettere il pensiero e l’idea principale» posta alla base delle sue azioni (29); d’altronde, poco più avanti è lo stesso Myskin a correggersi, quando afferma che «qualche volta è perfino un bene essere ridicoli, anzi è la miglior cosa» (30).
Circa il rapporto di Quaresma con colleghi e superiori e l’atteggiamento di costoro nei suoi confronti (ambiguo nel primo caso e arrogante nel secondo), un esempio piuttosto affine - a dispetto delle diversità di epoca e ambiente culturale - è riscontrabile in una commedia italiana scritta in dialetto piemontese, Le miserie d’ monssù Travet (1863) di Vittorio Bersezio (1837-1900): un’opera che ben difficilmente Barreto poté conoscere, nonostante la fama che essa godé anche all’estero. La fortuna dell’opera ha imposto nel vocabolario italiano il nome del protagonista, per definire con esso un «esponente del basso ceto impiegatizio, misero nell’aspetto, monotono nelle abitudini di vita e di lavoro, patetico nella scrupolosa osservanza del proprio dovere» (31). Va aggiunto come, per il loro stesso ruolo d’impiegati mal retribuiti, i travet siano scarsamente permeati d’idealismo.
Monssù Travet (in piemontese, monssù sta per monsignore, e Travet è la traduzione di Travicello, «piccola trave», che richiama il protagonista di una nota poesia di Giuseppe Giusti, Il re Travicello, 1843, caricatura di un monarca rimasto «un corbello», cioè un minchione) è un modesto e flemmatico impiegato statale nella Torino prima capitale del Regno d’Italia; onesto e pieno di dignità, da trentadue anni egli svolge il proprio lavoro con molto zelo, pur se molto mal retribuito, in un ufficio dove il capo sezione lo maltratta e i colleghi si approfittano del suo candore. Travet, che è in attesa della sospirata promozione, viene osteggiato perché si sospetta, a torto, che sua moglie sia l’amante del Commendatore, suo capo divisione; quand’egli finalmente si rende conto di tali ignobili pettegolezzi afferra per il bavero il capo sezione e lo scrolla davanti a tutti, venendo allontanato dall’impiego; sarà lo stesso capo divisione a sistemare ogni cosa per il meglio, ma nel frattempo, grazie all’aiuto dell’amico Giachëtta, Travet ha rimediato un nuovo e più conveniente lavoro.
Come poi Policarpo, Travet è un uomo che crede fermamente nel lavoro come mezzo di elevazione sociale, e crede altresì nelle istituzioni e nel suo ruolo d’impiegato regio. Nondimeno, è ben consapevole della poltroneria di molti colleghi. Lo testimoniano queste battute: quando Paolino, timidissimo corteggiatore di Marianin, figlia di primo letto di Travet, credendo di compiacere quest’ultimo si propone come aspirante impiegato nell’ufficio dove lui lavora, e chiede allo stesso cosa deve fare:


TRAV. Ca s’asseta lì e c’a lesa ii giornai.
PAOL. Ma anlora a m’smia inutil ch’i’ staga sì.
TRAV. A l’è mai inutil. A j’è la metà d’j’ impiegati c’a veño tut l’ann për fè nen autr che lon [...]. (32)


Uomo di buon senso e fondatamente democratico, Travet non riesce però a scrollarsi di dosso una certa patina di conservatorismo, anche se di tipo diverso da quello di Policarpo, perché incentrato sul «decoro» e sul ceto sociale. Quando, preoccupato per le sue precarie condizioni economiche, Giachëtta gli consiglia di trovare un lavoro alla moglie e alla figlia, egli risponde:


TRAV. Cosa dislo? Vorijlo c’a feisso la sartojra o la faseusa?
GIACH. E përché no?
TRAV. E ’l decoro?
GIACH. Bravo! ’L decoro as conserva mei nen pagand ii debit.
TRAV. C’a fassa ’l piasì... (33)


E quando il Commendatore gli caldeggia il matrimonio tra Paolino e Marianin:


TRAV. Ma vëdlo, a l’è che coul fieul... oh! a j’è pa nen a dije su so cont... ma, cosa veullo? a l’è d’una certa estrassion...
COM. Coma sarijlo a di’? Aparteñlo nen a ’na famia onesta?
TRAV. Për onesta sì, ma nem motoben... capisslo?
COM. Nient d’autut.
TRAV. Nen a me livel.
COM. An che manera?
TRAV. Për dijla an doi parole, so pare a l’era panatè, e chiel a l’è ancora socio con ’l sucessor d’ so pare. (34)


Travet «a l’è nen adulator nen ciarlatan» (35), esattamente come Policarpo; e non suole neppure porsi in qualche evidenza, come avviene a quest’ultimo nella sua smania di celebrare le meraviglie del Brasile. Ma è fatale che il suo atteggiamento schivo gli attiri gli scherni dei colleghi, quasi increduli davanti alla sua probità e all’indefessa capacità di lavoro.
Considerando l’àmbito ideologico e insieme patologico del carattere di Policarpo, occorre dire come a dispetto delle grandi differenze intercorrenti tra loro, nel novero dei precursori del personaggio entra a buon diritto Quincas Borba, il bizzarro filosofo creato da Joaquim Maria Machado de Assis (1839-1908) nel romanzo Memórias póstumas de Brás Cubas (1880, e in volume ’81) eppoi ripresentato, seppure solo nei primi capitoli, anche nel successivo Quincas Borba (1886-91). Joaquim Borba dos Santos, lo strampalato Quincas Borba fondatore dell’Humanitismo, è certo una delle figure più felici create dalla fantasia dello scrittore del Morro do Livramento. Il personaggio fa la sua comparsa nel XIII capitolo delle Memórias, come compagno di scuola di Brás: grazioso ma discolo, adorato dalla madre vedova, è sempre al centro di ogni divertimento, pronto a tormentare coi suoi scherzi il povero maestro dall’infelice cognome Barata (scarafaggio). Dopo questa presentazione, esce di scena per rientrarvi solo molto più in là, nel LIX capitolo: quando Brás, uomo fatto e amante di Virgília, sull’esempio del marito di lei, Lobo Neves, medita di entrare in politica. Brás fatica a riconoscere nell’uomo che lo saluta nel Passeio Público il vecchio compagno di scuola: Quincas infatti è magro, sciupato e assai male in arnese; egli gli regala cinquemila réis e lo esorta a cercarsi un lavoro, ma lui gli oppone la propria «filosofia della miseria» (36), e nel congedarsi con un abbraccio gli ruba l’orologio dal taschino. Tempo dopo però Quincas si rifà vivo, inviando all’amico un orologio in tutto simile a quello che gli aveva sottratto, con tanto di dedica, e accompagnato da una lettera: la sua situazione economica è cambiata, è tornato il sereno, perciò chiede a Brás il permesso di venirlo a trovare: vuole presentargli «un nuovo sistema di filosofia», appunto l’Humanitismo, che «rettifica lo spirito umano, sopprime il dolore, assicura la felicità, e riempie d’immensa gloria il nostro paese» (37); egli è un visionario dominato da questa grande fissazione; e il richiamo alla gratificazione della patria è il primo trait d’union tra lui e Policarpo.
Quincas si reca da Brás: ha ereditato da un ricco zio ed è tutt’altra persona; il suo intento è fare dell’amico un proselito dell’Humanitismo, «il grande rifugio degli spiriti» (38). In una seconda visita, spiega a Brás i princìpi della sua filosofia: nella quale l’autore intese probabilmente porre in berlina certi assiomi del positivismo; essa si compendia in un’arzigogolata mistura di elementi presocratici, precetti del bramanesimo e teorie deterministiche, col sovrappiù di ingegnose ovvietà. Grazie ad essi, innalzando «il pensiero alla sostanza originale», egli pretenderebbe di vincere «in qualche migliaia di anni» anche il dolore. «Pangloss, - conclude Quincas consegnando a Brás i quattro volumi manoscritti con le basi del suo pensiero - non era così sciocco come lo dipinse Voltaire» (39).
In più occasioni, Borba è prodigo di consigli verso l’amico. Brás lo consulta quando medita sull’opportunità di sposarsi; quando, giunto ai cinquant’anni, si sente in crisi; in occasione del suo fallito tentativo di ottenere un seggio alla Camera dei Deputati; e quando Virgília lo prega di soccorrere Donna Plácida; gli è vicino anche nel momento in cui Brás si appresta a fondare un giornale, nelle intenzioni «un’applicazione politica dell’Humanitismo». In quest’ultima circostanza Quincas confessa all’amico: «Posso dire come il grande Maometto: anche se ora si muovessero contro di me il sole e la luna, non ricuserei le mie idee» (40); il suo atteggiamento tetràgono in difesa di ciò a cui crede con tanto entusiasmo anticipa il fervore di Policarpo quando l’oggetto di discussione è il Brasile. Quincas espone ancora a Brás la sua teoria su beneficio, benefattore e beneficiato. Finché un giorno gli confessa di crederlo pazzo, e l’indomani manda a visitarlo un alienista; questi però, oltre a trovarlo sanissimo, insinua il sospetto che il vero pazzo sia Quincas:


- Giusto cielo! Le sembra?... Un uomo di così grande spirito, un filosofo!
- Non importa, la pazzia entra in tutte le case. (41)


Ma appreso che Brás è amico di Quincas Borba, il medico cerca di sminuire l’effetto delle sue parole, osservando che «un granello di storditaggine, lungi dal nuocere, dava un certo tono alla vita», e gli narra l’aneddoto del maniaco di Atene (riportato nella sua Storia varia dallo scrittore greco Claudio Eliano), il quale supponeva che tutte le navi entrate nel Pireo fossero di sua proprietà; asserendo come potenzialmente «c’è in tutti noi un maniaco di Atene» (42). Poco dopo, Quincas parte per il Minas Gerais, da dove fa ritorno in capo a quattro mesi; ma Brás si accorge subito che non è più lo stesso.


La differenza è che lo sguardo era un altro. Veniva demente. Mi raccontò che, al fine di perfezionare l’Humanitismo aveva bruciato tutto il manoscritto e si apprestava a riscriverlo. La parte dogmatica restava completa, sebbene non scritta; era la vera religione del futuro.
[...] Quincas Borba non solo era pazzo, ma sapeva di esserlo, e quel resto di coscienza, come una fievole lucernetta in mezzo alle tenebre, complicava molto il raccapriccio della situazione. Lo sapeva, e non se la pigliava contro il male; al contrario, mi diceva che era ancora una prova di Humanitas, che così scherzava con se stesso. Mi recitava lunghi capitoli del libro, e antifone, e litanie spirituali; arrivò perfino a riprodurre una danza sacra che aveva inventato per le cerimonie dell’Humanitismo. La grazia lugubre con cui egli sollevava e dimenava le gambe era singolarmente fantastica. Altre volte si rifugiava in un angolo, con gli occhi fissi nell’aria, e certi sguardi in cui, di tanto in tanto, folgorava un raggio persistente della ragione, triste come una lacrima...
Morì poco tempo dopo, in casa mia, giurando e ripetendo sempre che il dolore era un’illusione, e che Pangloss, il calunniato Pangloss, non era così sciocco come lo suppose Voltaire. (43)


Difficile, a proposito della grottesca danza di Quincas, non notare in essa qualche affinità di sentimento col pianto cerimoniale goitacás di Policarpo nell’accogliere la visita del compadre Vicente e di sua figlia Olga.
Il filosofo dell’Humanitismo e «naufrago della vita» (44) ritorna nel Quincas Borba, prima con la rievocazione dei suoi ultimi giorni, poi attraverso il suo cane, che ne porta il nome: la bestiola è stata da lui lasciata, assieme a una cospicua eredità, all’amico-infermiere, Rubião, col compito di occuparsi di lei. E torna con una sua bizzarra massima, «Al vincitore, le patate!», che diventa una sorta di Leitmotiv sulla bocca di Rubião, quando, mentre una torma di profittatori lo deruba o ne dilapida le sostanze, egli scivola nella pazzia fino a credersi l’imperatore di Francia Napoleone III. La parabola discendente di Rubião, - che è affine a Quincas nella disinvoltura un po’ facilona del carattere - precorre nella sostanza morale quella di Policarpo: in entrambi i casi, infatti, i personaggi sono stati ingannati anzitutto da se stessi. Ma se per Rubião la demenza e la miseria segnano l’anticamera della fine, Quaresma, creduto pazzo quand’era solo ammalato di nervi, eppoi incolpato d’alto tradimento, alla vigilia della fucilazione vive tale momento con assoluta lucidità, esprimendo la sua profonda disillusione. C’è, ancora, da porre l’accento sul significato sottilmente beffardo di quel motto di Quincas, «Al vincitore, le patate!», con cui Rubião si congeda dalla vita; il suo sapore orticolo riporta alla partita di abacates di Sossego per la cui vendita Policarpo aveva provato «la soddisfazione orgogliosa di chi ha appena vinto una grande e immortale battaglia» (II, 4).
Per trovare altri personaggi letterari in qualche aspetto precursori di Quaresma, a questo punto si deve tornare in Francia, dove in quel 1881 che vede l’uscita in volume del machadiano Brás Cubas vengono pubblicati due romanzi che Barreto senz’altro conobbe. Il primo, Bouvard et Pécuchet di Gustave Flaubert (1821-80), è un’opera postuma e non del tutto compiuta, alla quale l’autore aveva lavorato nei suoi ultimi otto anni di vita. Protagonisti sono due copisti di Parigi uniti da salda amicizia, che investono la cospicua eredità ricevuta dal primo ritirandosi in un podere a Chavignolles, nel Calvados, e dedicandosi a vari studi di verifica nell’àmbito del sapere: applicandosi allo sperimentalismo e spaziando via via dall’agricoltura al magnetismo, dalla chimica alla medicina, dall’archeologia alla pedagogia, dalla religione alla politica, inevitabilmente frustrati da una pesante catena di fallimenti; l’unica soluzione per scongiurare il suicidio sarà quella di riprendere la vita e il mestiere di un tempo, ma stavolta, con l’opaca certezza che per loro il copiare si è ridotto ormai ad un puro atto meccanico, senza partecipazione, per l’inquietante necessità che il foglio si riempia.
L’inutile ostinazione con cui Bouvard e Pécuchet si spendono nei loro tentativi, - un accanimento che ricorda quello del balzachiano Balthazar Claes de La ricerca dell’assoluto (1834) - ha senza dubbio delle consonanze con certe azioni compiute da Policarpo sotto l’impulso patriottico. In comune coi due personaggi flaubertiani l’eroe di Barreto non ha solo l’età (loro quarantasettenni, lui che «andava per i cinquanta»: II, 4) e talune incombenze professionali.(copia anch’egli documenti, o per lo meno lo fa nel momento che si rivelerà decisivo per determinare il suo allontanamento dal lavoro). C’è, intanto, da porre in risalto la disastrosa esperienza di coltivatore. Per prepararsi al loro compito in campagna, Bouvard e Pécuchet leggono di volta in volta i tomi della Maison rustique di Bailly de Merlieux, i numeri del “Bon Jardinier” e l’Architecte des Jardins di Pierre Boitard, così come Policarpo organizza una sua «biblioteca agricola» (II, 1); discorso pressoché analogo vale per gli strumenti di lavoro e gli espedienti del mestiere, nei confronti dei quali, in entrambi i casi, a dispetto della buona volontà profusa a trionfare è sempre l’inettitudine. Bouvard e Pécuchet si applicano in prima persona a lavorare la terra, e lottano vanamente contro larve e lombrichi, subendo pesanti smacchi da una sfilza di ortaggi, verdure e frutti, prima di passare al giardinaggio e alle conserve, con esiti egualmente disastrosi; Policarpo non è da meno: maneggia la zappa come può, e si batte con coraggiosa inutilità contro eserciti di formiche, non incontrando miglior fortuna coi prodotti orticoli e con le piante da giardino. Sia loro che lui, poi, hanno la tendenza a consolarsi del fallimento «di uno studio con un altro studio» (45). Ma decisiva per sancire la similarità delle due situazioni è la sostanziale concordanza del loro drammatico esito: dove la morale si fonda nell’incapacità di modificare le regole del mondo, di scardinare le convenzioni e con esse la metafisica stolidezza ìnsita nell’uomo.
Se il punto di vista di Flaubert svela molti tratti che Barreto farà suoi, l’intenzione dei due scrittori è tuttavia divergente: mentre il francese, disgustato dai suoi contemporanei e dalla bêtise (stupidità umana), attraverso i protagonisti del suo romanzo vuole «esalare il [suo] risentimento, vomitare il [suo] odio, espettorare il [suo] fiele, eiaculare la [sua] collera, detergere la [sua] indignazione» (46), esprimendo con ciò la presa d’atto della nullità del mondo, il brasiliano si preoccupa di porre l’indice sulla profonda differenza intercorrente tra la persona pervasa di ideali e coloro che menano l’esistenza curandosi appena del contingente, badando egoisticamente solo alla salvaguardia dei loro interessi e alle piccole beghe professionali e politiche; per Flaubert, Bouvard e Pécuchet sono «due idioti», mentre s’intuisce che per Barreto Policarpo, ad onta dei suoi difetti e della sua borghesissima normalità, è una sorta di eroe, la personificazione di alcune delle migliori virtù dell’essere umano.
C’è, infine, ancora un dettaglio da notare: ed è la struttura del romanzo flaubertiano, concepito in tre parti e steso con questa suddivisione fino al 1877; poi le parti diventeranno due, e quindi verranno abolite; ma l’opera mostra comunque precisi segni della tripartizione iniziale. Ora, come si sa il romanzo di Barreto è scandito in tre parti, distinte nei luoghi, nei temi e nelle funzioni stesse del protagonista: è anche questo un segno dell’attenzione accordata da Lima al Bouvard et Pécuchet?
Il secondo romanzo è Le crime de Sylvestre Bonnard di Anatole France (1844-1924). L’anziano filologo e bibliofilo Sylvestre Bonnard, membro dell’Institut de France, - il quale, scapolo, vive in una bella casa parigina affacciata sulla Senna, in compagnia di un cane, di una domestica ancor più in là negli anni e dei venerati libri - ama e studia santi, cattedrali e leggende del Medioevo francese, come Policarpo ama e studia la geografia del Brasile e il tupi-guarani. A parte questo, non ha con lui molti altri punti di contatto; ma, anch’egli idealista, si batte per strappare la nipote della donna che amò adolescente dalle grinfie di un ignobile tutore e di un’istitutrice che la tratta come una serva, e nel suo «fuoco interiore» sente in sé anche un pizzico dello spirito di Don Chisciotte, che lo stimola con parole nelle quali Quaresma potrebbe specchiarsi:


Pensa fortemente delle cose grandi, e sappi che il pensiero è la sola realtà del mondo. Innalza la natura alla tua statura, e l’universo intero non sia per te se non il riflesso della tua anima eroica. Combatti per l’onore: questo solo è degno d’un uomo, e se ti accade di ricevere delle ferite, spandi il tuo sangue come una rugiada benefica e sorridi. (47)


Pur essendone concettualmente piuttosto lontano, Sylvestre Bonnard è senz’altro il più immediato e diretto precursore di Des Esseintes, il protagonista del romanzo Á rébours (1884) di Joris-Karl Huysmans (1848-1907). E se il raffinato ed estenuato esteta Jean Floressas Des Esseintes, egoisticamente preoccupato solo dei suoi libri e dell’arredamento della sua casa di Fontenaix-aux-Roses, è per carattere quasi agli antipodi rispetto a Policarpo (le sue fissazioni da collezionista non nascono dallo stesso nobile impulso che ha spinto quest’ultimo a costituirsi una biblioteca sul Brasile), la sua precisione maniacale nei singolari orari dei rituali quotidiani - «D’inverno, alle cinque, subito dopo il tramonto, faceva una leggera colazione con due uova alla coque, tè e crostini; pranzava verso le undici; durante la notte beveva caffè, e a volte tè o vino; verso le cinque del mattino, prima di coricarsi, piluccava uno spuntino» (48) - si può accostare alla proverbiale puntualità di Policarpo nel tornare a casa e alle abitudini domestiche del nostro personaggio.
Dello stesso anno di Á rébours è Filomena Borges di Aluísio de Azevedo (1857-1913), un romanzo ambientato nel Segundo Reinado, la cui protagonista si pone idealmente come parziale antitesi di Policarpo. Filomena è un’eroina romantica in versione paradossale, che imbevuta di sogni, insoddisfatta e nevrotica, mal sopporta la realtà circostante e il Brasile; ella spinge a ‘europeizzarsi’ il ricco e schivo marito, João Borges, che ha sposato senza amore, ma la cui devota passione finirà per corrispondere. E dopo avventure che li vedono perdere l’agiatezza e lavorare perfino in un circo, grazie al fascino di lei la coppia finisce per amicarsi l’imperatore, il quale gratifica João di un titolo nobiliare e fa di lui il suo consulente. Avviene però che con la perdita dell’egemonia del partito Conservatore (5 gennaio 1878) egli perda di fatto ogni credito: delusi, i Borges si ritirano nell’isola di Paquetá, dove, resasi conto d’aver sostenuto un’inutile lotta per la loro affermazione sociale, e perciò profondamente amareggiata, Filomena muore, seguita qualche giorno dopo dal disperato João.
Opera complessa e intrigante, Filomena Borges si presta a più chiavi di lettura: in essa, di là dalla satira del protagonismo romantico (tanto più sferzante in quanto alla fine, con la morte delle illusioni si ha anche la morte dei protagonisti), alla saturazione melodrammatica dei tipici effetti d’appendice corrisponde la vivacità dei dialoghi, con esiti di contrapposizione grottescamente creativi. Sebbene, almeno all’inizio, Filomena e Policarpo abbiano del Brasile una visione antitetica, l’epilogo delle rispettive storie - cagionato in entrambi i casi da avvenimenti di natura politica - li accomuna nella disillusione e nella morte; quest’ultima è inevitabile, essendo nella natura dei due personaggi l’incapacità di vivere nella coscienza del proprio inganno. Filomena, che dapprincipio «molto sognatrice, molto saturata di romanticismo, non si rassegnava all’idea di legarsi a un borghese bislacco come il Borges» (cap. I), col passare del tempo vien pian piano affezionandosi a lui, nel conoscere la sua dedizione senza limiti e le sue intatte qualità morali, fino a scoprirsi gelosa e innamorata; tuttavia, in sostanza il loro rapporto non muta, mantenendosi sul binario della subalternità del tranquillo João nei confronti dell’intraprendente consorte. Tanto che, osserva Antônio Candido, «il lettore comincia a chiedersi se il bovarismo della bella Filomena non è anzitutto una specie di chisciottismo, dato il complemento che le reca il compagno. Non saranno, rispettivamente, Don Chisciotte e Sancho Panza?» (49). Ma diversamente dall’eroe di Cervantes e da quello di Barreto, Filomena non è un’idealista: o almeno, a voler essere più chiari, a dispetto dell’indubbia vivezza di carattere le sue aspirazioni romantiche appaiono un po’ troppo convenzionali per attingere al nome di idee.
Per trovare un nuovo idealista nel quale cogliere qualche pallida anticipazione di Policarpo bisogna ancora una volta attraversare l’oceano, e approdare, stavolta, in Italia: dove Emilio De Marchi (1851-1901) ambienta nell’agricola e operosa Brianza il romanzo Giacomo l’idealista (1897). Il suo protagonista, il giovane Giacomo Lanzavecchia, è un modesto figlio di fornaciaio, che insegna grammatica latina ai ragazzi del ginnasio e nel contempo prepara un saggio sull’Idealismo dell’avvenire, «rivolto specialmente contro il pedestre meccanismo della scuola positiva»; egli «dava così poca importanza a se stesso che anche gli amici erano quasi costretti a non stimarlo troppo per paura di far offesa alla sua modestia. Un terzo suo difetto, preso come filosofo, era di voler dire le cose con tanta chiarezza che quasi non pareva più filosofia» (50). Modesto, semplice e retto, dunque; proprio come sarà Policarpo. Il suo pensiero è fatto soprattutto di riflessioni etiche:


Ciò che Claude Bernard ha detto della vita fisica, io psicologo posso dire della vita morale. Cosa meravigliosa in noi non è tanto la varietà e la molteplicità dei fenomeni spirituali, quanto il nascere e lo svilupparsi dell’uomo morale, che opera e cammina secondo un ideale a cui egli non può resistere. (51)


Giacomo «non solo non provava alcuna invidia per chi si pasce dei lauti favori della fortuna, ma il non vivere di idee parevagli la più compassionevole sorte che potesse toccare a una creatura ragionevole» (52).
Ma la sua rettitudine viene messa a durissima prova dall’offesa che il giovane Giacinto fa alla virtù di Celestina, una povera orfana con la quale il nostro ha un tacito accordo di matrimonio; costui è figlio dei conti Magnenzio, due brave persone ai quali Giacomo deve il fatto d’aver potuto studiare, migliorando così la propria posizione sociale. Rimasta incinta, Celestina viene mandata dalla contessa presso le sorelle del marito, per dare modo di comporre la questione prima che susciti scandalo. Il dolore di Giacomo è grande e pone in discussione la sua stessa tolleranza:


Era un risveglio assai doloroso e grottesco per un filosofo idealista, che stava sognando l’amabile conciliazione degli uomini colle forze nemiche della natura! All’urto feroce della realtà egli si avvedeva d’aver riflesso nella sua filosofia le cose del mondo forse con una certa limpidezza; ma semplicemente capovolte! Aveva creduto nell’illusione fantastica della sua solitudine di stendere il volo ai più alti cieli e invece era semplicemente la terra che gli mancava sotto i piedi. Mai ingenuità filosofica era stata più punita! mai s’era vista una più grande incapacità! (53)


La disillusione di Giacomo fa il paio con quella di Policarpo nell’imminenza d’essere fucilato: per entrambi, la condanna filosofica è senz’appello. Giacomo getta nel fuoco del suo caminetto il libro che andava preparando sull’Idealismo dell’avvenire:


[...] nel furore con cui un suicida si pianta un coltello nelle carni vive, urtò colla pala quell’inerte mucchio di vani pensieri, che svolazzando in una fuga sgominata, si dispersero per la nera gola.
Finis philosophiæ” mormorò con grave accoramento, chiudendo gli occhi e appoggiando la testa affaticata al palmo della mano. Di che cosa avrebbe vissuto domani? (54)


Il giovane idealista di belle speranze, dopo avere riabbracciato Celestina, fuggita presso di lui, e averla sposata in limine mortis, riprenderà l’insegnamento lontano dal paese natìo; è vero, ha distrutto il suo libro, ma ha pur sempre ritrovato se stesso:


Viaggiando molto lontano nella dolorosa esperienza, egli era uscito molti passi dalla strada delle ragioni solite e camminava, calpestando le idee accessorie, con un sentimento ignoto al senso comune, verso una Idea, che metteva finalmente nel suo spirito la pace dell’uomo vittorioso. (55)


La visione morale e cristiana di De Marchi è di trasparente ascendenza manzoniana. Egli sceglie gli eroi delle sue storie tra la piccola borghesia lombarda: i suoi protagonisti sono figure schive, sorrette da un’impalcatura di genuini sentimenti di pietas, che le avversità della vita mettono a dura prova, esaltando in loro il senso di responsabilità, la virtù del sacrificio e la dignità della rassegnazione. Un Giacomo Lanzavecchia, un Demetrio Pianelli del romanzo omonimo, sentono sempre in loro la voce della coscienza, che li chiama ad atteggiamenti consapevoli e all’assunzione di scomode incombenze; questa percezione dell’onestà individuale - che nell’autore va al passo con la denuncia di certe iniquità sociali - li porta a identificare molte loro istanze spirituali con la responsabilità morale.
In Policarpo, la responsabilità morale è avvertita prioritariamente come dovere di favorire la crescita culturale, economica e politica del proprio paese: e per ognuna di tali necessità egli si spende, rispettivamente, in una parte delle tre che compongono il romanzo. Ma dopo la sua partecipazione negli scontri della Revolta da Armada, dopo avere ucciso ed essere stato ferito in un «combattimento di trogloditi» (III, 4), e ancora, soprattutto, dopo la presa d’atto della giustizia sommaria instaurata dalle forze lealiste di Floriano Peixoto, il forte anelito di legalità che si manifesta in lui procede di pari passo con la disillusione nei riguardi della patria: un mito, una chimera. Il suo bisogno di equità, dunque, è affatto diverso da quello che anima i protagonisti demarchiani: nel nostro maggiore, entrano in gioco elementi come la frustrazione e il disinganno, che nell’universo laico e cattolico dello scrittore milanese hanno spazio più limitato e vengono presto assorbiti dalla reazione dei suoi eroi eponimi. In questo senso, e non tanto per una mera questione cronologica, Policarpo è un personaggio indubbiamente più moderno; anzi, è moderno e basta.
Agli albori del nuovo secolo, - di quel Novecento che, nel romanzo come un po’ in tutte le arti, vede nello sperimentalismo la liberazione di forme e linguaggi e il proliferare dei contenuti, la crisi dell’ideologia e la pluralità delle interpretazioni, registrando col trionfo del metalinguaggio, dell’atemporalità, dello stream of consciousness, dell’inettitudine e delle malattie dell’io, l’avvento del relativismo - c’è ancora da segnalare, almeno, l’esperienza de Il fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello (1867-1936). Mattia, fuggito a Montecarlo per dissapori familiari e per la consapevolezza di una certa insipienza di vita, vince al Casinò «una somma veramente enorme»; mentre è quasi in procinto di rientrare nel paese natale legge su un giornale la notizia della sua morte: il cadavere di uno sconosciuto morto suicida è stato identificato come il suo. Ufficialmente deceduto, e in più inaspettatamente ricco, egli si sente improvvisamente libero di «esser l’artefice» del suo «nuovo destino». Mattia si cerca dunque una nuova identità, e col nuovo nome di Adriano Meis, dopo aver viaggiato in Italia e all’estero si trasferisce a Roma, pigliando alloggio in una pensione. Ben presto, però, s’accorge d’essere diventato «un’ombra d’uomo»: infatti, innamoratosi, riamato, della dolce Adriana, figlia del padrone di casa, s’avvede di non poterla corrispondere. Non essendo registrato all’anagrafe, Mattia-Adriano è come se non esistesse: non gode di alcun diritto civile; non può contrarre matrimonio; non può denunciare un furto che subisce del suo denaro; non può neppure - per assurdo che sembri - battersi a duello. Al disgraziato Mattia non resta che inscenare il finto suicidio di Adriano, e tornare al paese, dove l’attende una sorpresa: Romilda, la moglie e supposta vedova, si è risposata col suo amico Pomino, ed ha avuto una figlia; così, egli riprende il lavoro nella polverosa biblioteca locale: qui, si mette a scrivere la sua storia, recandosi di tanto in tanto al cimitero, a deporre dei fiori sulla ‘sua’ tomba.
Di là dalla trama, che con l’opera di Barreto c’entra poco o nulla, e di là dalla stessa indole di Mattia, profondamente diversa da quella di Policarpo, nelle pieghe del discorso i due personaggi rivelano poche ma sostanziali consonanze. Si può anche prescindere da affinità casuali, come ad esempio l’amore verso i libri; che in Mattia non è ingenito, ma nasce pian piano, nella noia della sua professione di bibliotecario alla biblioteca Romitelli:


Lessi, così, di tutto un po’, disordinatamente; ma libri, in ispecie, di filosofia. Pesano tanto; eppure, chi se ne ciba e se li mette in corpo, vive tra le nuvole. Mi sconcertarono peggio il cervello, già di per sé balzano. (56)


Perché in questione c’è il rapporto dei due con la società, cioè a dire col mondo. Nel suo dialettico contrasto tra forma e vita, - un tema, tutto pirandelliano, che pone in discussione l’identità dell’individuo - Mattia è un uomo vessato: prigioniero della sua maschera sociale, del suo ruolo di marito e di genero, della professione di bibliotecario che è per lui anche un rifugio dalle amarezze dell’ambiente familiare, lo stimola e nel contempo un pochino l’annoia.
Come Mattia, - ma in modo, per lui, del tutto involontario - Policarpo è un «forestiero della vita»; e se, riguardo all’identità sociale, non ha gli stessi dubbi, attraverso i suoi insuccessi, l’incomprensione che rimedia dagli altri e l’ostilità di alcuni, è palese che anche per lui «ormai non c’è più posto». Nelle sue amare riflessioni finali, Policarpo avrebbe potuto prendere in prestito queste parole di Mattia:


Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? (57)


La situazione paradossale del personaggio pirandelliano non è poi dissimile da quella di Policarpo. C’è in discussione il proprio ruolo nella collettività, e se il percorso dell’uno è radicalmente diverso da quello dell’altro, le loro considerazioni sono però sorprendentemente prossime: l’accorata conclusione a cui giunge Mattia - «Ah, che vuol dir morire! Nessuno, nessuno si ricordava più di me, come se non fossi mai esistito...» (58) - in Policarpo trova un corrispettivo nel «Non lasciava nulla che affermasse il suo passaggio e la terra non gli aveva dato nulla di gradevole» (III, 5). Ma, come s’è detto, lo spirito dei due personaggi è diverso. Nello sfogo delle sue tutto interiori cogitazioni, Policarpo non ha l’apprensione individualista di Mattia: la sua incoercibile modestia lo fa, semmai, preoccupato per altruismo, e se s’inquieta a proposito del «nulla [...] che affermasse il suo passaggio», ciò avviene perché, si arguisce, riflette che quel che succede a lui è nel destino di molte persone.
La sua dignità non viene mai meno. Questo spiega anche i risvolti grotteschi di alcune sue azioni. Come per certi personaggi delle commedie di Georges Feydeau, in Policarpo l’umorismo è involontario, e nasce dal contrasto tra l’assoluta serietà, dovuta alla sua convinzione e buona fede, e il potenziale comico di determinati comportamenti e situazioni: giacché com’egli si vede non è come lo vedono gli altri, o almeno la maggior parte delle persone. Da quest’equivoco nasce e si sviluppa gradualmente il suo dramma, la catena d’incomprensioni e insuccessi che gli causa tante amarezze e che finisce per assumere a suo riguardo le caratteristiche di una vera distonia col mondo.
Il fu Mattia Pascal precede di sette anni la pubblicazione in appendice del romanzo di Lima Barreto. Dopo d’allora, di tutti i personaggi letterari che si potrebbero utilmente porre a confronto con Policarpo (cito lo Zeno Cosini de La coscienza di Zeno di Italo Svevo, lo Josef K. de Il processo di Kafka, l’Hans Castorp de La montagna incantata di Thomas Mann...), il solo che, almeno in fase di elaborazione concettuale, potrebbe avere qualche concordanza cronologica è Ulrich, il protagonista del romanzo L’uomo senza qualità (Der Mann ohne Eigenschaften) di Robert Musil (1880-1942). Come si sa, infatti, la stesura di quest’opera monumentale - che, works in progress, occupò la mente dell’autore per oltre tre decenni (sviluppata attraverso molteplici titoli e rimaneggiamenti, e rimasta incompiuta; pubblicata in più fasi, nel 1930 e ’33, quindi, dopo la sua morte, tra il ’52 e il ’78, in alcune ricostruzioni che, tranne l’ultima, suscitarono vivaci controversie critiche) - risale, nei suoi primi appunti, al 1905.
Trentunenne ex ufficiale che vive nella Kakania (nome fittizio per alludere all’impero austro-ungarico, e nello specifico a Vienna), Ulrich è un intellettuale dal carattere vagamente asociale, insoddisfatto della vita che conduce e alla perenne ricerca di qualcosa che possa darle senso; nell’agosto 1913 egli viene messo in contatto dal padre, che è preoccupato del suo lassismo, con un comitato politico costituito da un gruppo di aristocratici, l’Azione parallela, per predisporre con largo anticipo le celebrazioni del settantesimo anno di regno dell’imperatore Francesco Giuseppe, previsto nel 1918. Nominato segretario del comitato, Ulrich si mette subito al lavoro: ma il suo operato viene ostacolato dalle maglie della burocrazia e dall’impossibilità di trovare un referente concreto tra i fumosi e spesso meschini membri dell’Azione parallela; finché nel 1914, allo scoppio della guerra, il comitato si scioglie, e due anni dopo Francesco Giuseppe muore; nel 1918, addirittura, l’impero non esisterà neanche più. A margine del suo filo conduttore, il romanzo sviluppa varie storie individuali: che attengono ai rapporti di Ulrich con l’amante Bonadea, coi coniugi Walter e Clarisse, con la vivace e mondana Diotima, con l’ebraica Gerda, con la sorella Agathe, col criminale Moosbrugger; quella di Musil è una memorabile raffigurazione del crollo dell’impero austro-ungarico, la cui esiziale fragilità non era stata percepita che da pochissimi.
Di là da alcune similitudini puramente esteriori tra i due personaggi - come, ad esempio, il loro amore per la divisa (frustrato in Policarpo, inizialmente soddisfatto in Ulrich), il fatto che entrambi siano celibi, ed abbiano una sorella - tanto l’uno quanto l’altro sono figure ricche d’interiorità e di voglia di fare: perché la mancanza di qualità in Ulrich si riferisce precipuamente, non già alle sue doti, incontestabili, bensì alla sua difficoltà di mettersi in rapporto col circostante; difficoltà che, nei fatti, non è poi diversa da quella di Policarpo. Quest’ultimo è così persuaso della bontà delle sue idee e della possibilità di darvi concreta applicazione, che anche nella logica strampalata di una proposta come quella di decretare il tupi-guarani lingua ufficiale del popolo brasiliano, avrebbe potuto spiegarne il motivo nell’affermazione sillogistica dello scrittore austriaco secondo cui «Se esiste il senso della realtà deve esistere anche il senso della possibilità», in quanto «È la realtà che risveglia le possibilità, e nulla sarebbe così assurdo come negarlo» (59).
Musil ha illustrato con un efficace paragone la differenza tra «gli uomini della realtà e quelli della possibilità», ovvero il modo rispettivo di intendere la realtà della gran parte delle persone e di un tipo come Ulrich: «[...] l’uomo dotato del comune senso della realtà assomiglia ad un pesce che abbocca all’amo e non vede la lenza, mentre l’uomo dotato di quel senso della realtà che si può chiamare anche senso della possibilità tira una lenza e non immagina nemmeno lontanamente che vi sia attaccata un’esca». Le parole che seguono, poi, se ritraggono il carattere di Ulrich e anticipano i motivi di contrasto che egli avrà in seno alla società, non sarebbero meno idonee per illustrare quello di Policarpo e per spiegare come mai il suo agire lo porterà alle conseguenze più disastrose ed estreme: «Un uomo poco pratico - ed egli non solo lo sembra, ma lo è anche davvero - si rivela inaffidabile e imprevedibile nei rapporti con il prossimo. Compirà azioni che per lui hanno un significato diverso che per gli altri, ma nulla gli darà pensiero se solo potrà ricondurlo a un’idea eccezionale» (60).
Naturalmente, agli occhi dei più Policarpo risulta inaffidabile solo nel momento in cui si rivela imprevedibile: poiché nell’àmbito della società, e in specie di certa ottusa burocrazia, non v’è nulla di peggio dell’imprevedibilità, fuggita da tutti come una malattia contagiosa. Quand’egli, dunque, compie queste «azioni che per lui hanno un significato diverso che per gli altri», le sue molte qualità umane e professionali - onestà, modestia, rispetto, zelo, comprensione, e, dulcis in fundo, l’amor di patria e la propensione verso grandi ideali - vengono subito misconosciute e ignorate. È ancora Musil a chiarire come per tali reazioni non vi sia modo di incolpare qualcuno; il problema, semmai, consiste nel fatto che mentre la stupidità può indossare qualsiasi vestito della verità, la verità «possiede invece una veste sola e una via sola, ed è sempre in svantaggio» (61). Spendendosi con ostinazione per ciò che reputa il miglioramento morale e materiale della patria, nella sua rettitudine e sobrietà Policarpo è infatti sempre in svantaggio, e purtroppo non se ne rende conto.
Dando credito all’osservazione di Musil, si è forse portati a scorgere nel caro maggiore Quaresma una sorta di heautontimoroumenos, un punitore di se stesso per eccesso di zelo; egli, infatti, ha inconsapevolmente fatto sua una massima di Madre Teresa di Calcutta: «Da’ al mondo il meglio di te e ti prenderanno a calci. Non importa, da’ il meglio di te». Quest’abnegazione, che trova una cornice adeguata nella dignità del personaggio, mantenuta fino all’ultimo, è l’eredità spirituale di Policarpo, e costituisce ad un tempo il lascito morale del suo autore.



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Per alcuni spunti di questo saggio mi sono valso del mio libro La brasiliana svelata. Storia mai raccontata della più grande narrativa del Sud America (1870-1922); Roma, Robin, 2007.


NOTE


(1) HELIOS [PAULO MENOTTI DEL PICCHIA], Pelo Brasil!, in “Correio Paulistano”, São Paulo, a. LXIX, 19 settembre 1923; e Patriotismo prático, ibid., 4 ottobre 1923.
(2) BARRETO, O cemitério dos vivos; p. 51.
(3) ALBERT EINSTEIN, Pensieri degli anni difficili; Torino, Boringhieri, 1965, e Pensieri di un uomo curioso; Milano, Mondadori, 1997.
(4) BARRETO, Triste fim etc.; p. 11.
(5) Così Spencer Tracy nel film ...E l’uomo creò Satana (Inherit the Wind, 1960) di Stanley Kramer, che Jerome Lawrence e Robert E. Lee trassero dalla loro omonima e celebre opera teatrale (1955).
(6) OLAVO BILAC, Poesias Infantis (1904).
(7) ERASMO DA ROTTERDAM, Elogio della follia (1511); 1, 1. Le due citazioni che seguono sono tratte dalla stessa opera.
(8) CERVANTES, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha; parte I, cap. I, p. 1038. Ogni altro riferimento allo scrittore è tratto da questo volume.
(9) «Non è pazzo, ma temerario» lo definisce Sancho (Ibid., II, XVII, p. 1328).
(10) SCHINDLER-JIMÉNEZ, p. 18.
(11) Ángel Valbuena Prat, in CERVANTES, Obras completas, cit., p. 875.
(12) CERVANTES, El licenciado Vidriera; op. cit., p. 881. Sono tratte da questo libro anche le successive citazioni del testo.
(13) GRIMMELSHAUSEN, L’avventuroso Simplicissimus; libro II, cap. VII, p. 130.
(14) Ibid.; libro II, cap. XVII, pp. 274-75. Tale giudizio fa il paio con uno espresso quasi un secolo dopo dallo scrittore inglese Tobias Smollet (1721-71) nel romanzo Avventure di Lancelot Greaves (Adventures of L. G., 1761): «Quanto a me, penso che una metà della popolazione è folle, e che l’altra metà non è proprio molto sensata».
(15) Ibid.; libro V, cap. XXIV, p. 467.
(16) ROUSSEAU, Emilio; libro III, cap. VIII, p. 162.
(17) DE FOE, Robinson Crusoe; cap. III, p. 111.
(18) ROUSSEAU: la prima citazione è tratta dal Discorso sull’origine e fondamento dell’ineguaglianza tra gli uomini (1755), la seconda dal Contratto sociale (1762).
(19) VOLTAIRE, Candido; cap. XXX, p. 105.
(20) Ibid.; cap. XXX, p. 104.
(21) LESKOV, I preti di Stàrgorod; parte II, cap. VIII, p. 181.
(22) AZEVEDO, Il cortiço, cap. VII, p. 76.
(23) BARRETO, Volto ao Camões, in “A.B.C.”, Rio de Janeiro, 27-4-1918; poi in Marginalia, p. 159.
(24) DOSTOEVSKIJ, Lettere sulla creatività, p. 81. Lettera alla nipote Sof’ja Aleksandrovna Ivànova, Ginevra, 1° gennaio 1868. Appartengono alla stessa lettera anche le due citazioni che seguono, il brano virgolettato e quello in corpo minore.
(25) ROSSANA ROSSANDA, La bontà: «L’idiota» (Fëdor Dostoevskij, 1868-69); in: Franco Moretti, Il romanzo, vol. II, Le forme; Torino, Einaudi, 2002. Vedilo in: http://66.102.9.104/search?q=cache:212Do3n0e7MJ:www.einaudi.it/einaudi/ita/news/can4/98-306.jsp+%22L%27idiota%22+%22Dostoevskij.
(26) DOSTOEVSKIJ, L’idiota; parte I, cap. VI, p. 98.
(27) Ibid.; parte II, cap. I, p. 228.
(28) Ibid.; parte II, cap. VI, pp. 296-99.
(29) Ibid.; parte IV, cap. VII, p. 651.
(30) Ibid.; parte IV, cap. VII, p. 652.
(31) Voce travèt o travétto, in GIACOMO DEVOTO-GIANCARLO OLI, Vocabolario Illustrato della Lingua Italiana; Milano, Selezione dal Reader’s Digest, 1979. Volu-me II, p. 1401.
(32) BERSEZIO, atto II, scena XII, p. 55.
(33) Ibid.; atto I, scena II, p. 8.
(34) Ibid.; atto IV, scena II, p. 80.
(35) Ibid.; atto I, scena VIII, p. 23.
(36) MACHADO DE ASSIS, Memórias ecc.; cap. LIX, p. 91.
(37) Ibid.; cap. XCI, p. 123.
(38) Ibid.; cap. CIX, p. 138.
(39) Ibid.; cap. CXVII, p. 145.
(40) Ibid.; cap. CXLVI, p. 166. Appartiene allo stesso capitolo, p. 165, anche la precedente citazione.
(41) Ibid.; cap. CLIII, pp. 171-72. Appartiene allo stesso capitolo, p. 172, anche la successiva citazione.
(42) Ibid.; cap. CLIV, p. 172.
(43) Ibid.; cap. CLIX, pp. 175-76.
(44) MACHADO DE ASSIS, Quincas Borba; cap. IV, p. 18.
(45) Roger Kempf, La stupidità e l’amicizia (prefaz. in FLAUBERT, Bouvard et Pécuchet; p. XVI).
(46) FLAUBERT, Correspondance; supplément, III, pp. 56-57. Lettera a Léonie Branie, 5 ottobre 1872. Non è senza curiosità la frase che conclude questa celebre invettiva: «E dedicherò il mio libro ai Mani di san Policarpo».
(47) FRANCE, II parte, 17 aprile, p. 99.
(48) HUYSMANS, cap. II, p. 47.
(49) Antônio Candido, in ALUÍSIO DE AZEVEDO, Filomena Borges; p. 4.
(50) DE MARCHI, parte I, cap. I, pp. 15-16.
(51) Ibid.; parte I, cap. III, p. 29.
(52) Ibid.; id.
(53) Ibid.; parte II, cap. IV, p. 207.
(54) Ibid.; parte II, cap. V, p. 212.
(55) Ibid.; parte II, cap. XIV, p. 238.
(56) PIRANDELLO, cap. V, p. 72.
(57) Ibid.; cap. II, p. 15.
(58) Ibid.; cap. XVIII, p. 335.
(59) MUSIL, parte I, cap. 4, pp. 16 e 18, anche per le due citazioni che seguono.
(60) Ibid.; parte I, cap. 4, pp. 18-19.
(61) Ibid.; parte I, cap.16, p. 76.



BIBLIOGRAFIA


I brani di scrittori spagnoli e brasiliani, e gli altri senza indicazione, li ho tradotti direttamente dai testi originali; per comodità del lettore indico comunque, quand’è il caso, l’edizione italiana di riferimento.


AZEVEDO, ALUÍSIO DE, Filomena Borges (prefácio de Antônio Candido); São Paulo, Livraria Martins Editora, s/d.
AZEVEDO, ALUÍSIO DE, O cortiço, 1890; São Paulo, Ática, 1997. Edizione italiana: Il cortiço (traduz. e apparati critici di Virgilio Zanolla); Pescara, Ianieri, 2008.
BARRETO, AFONSO HENRIQUES DE LIMA, Triste fim de Policarpo Quaresma, 1911. Edizione Porto Alegre, L&PM, 1998. Edizione italiana: Policarpo Quaresma (traduz. di Ombretta Borgia e Sergio Magaldi, introduz. di Giovanni Ricciardi); Roma, Pericle Tangerine, 2004. Una mia traduzione del primo capitolo del romanzo è presente in: Virgilio Zanolla, La brasiliana svelata. Storia mai raccontata della più grande narrativa del Sud America (1870-1922); Roma, Robin, 2007, pp. 405-25.
BARRETO, AFONSO HENRIQUES DE LIMA, Marginalia. Artigos e crônicas (prefácio de Agrippino Grieco); São Paulo, Brasiliense, 1956.
BARRETO, AFONSO HENRIQUES DE LIMA, O cemitério dos vivos (prefácio de Eugenio Gomes); São Paulo, Brasiliense, 1961.
BARRETO, AFONSO HENRIQUES DE LIMA, Diário íntimo. Memorias (prefácio de Gilberto Freyre); São Paulo, Brasiliense, 1956.
BERSEZIO, VITTORIO, Le miserie d’monssù Travet, 1863. Edizione 1904, Torino, Tipografia della Gazzetta del Popolo.
CERVANTES SAAVEDRA, MIGUEL DE, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha; in Obras completas, Madrid, Aguilar, 1962.
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DE MARCHI, EMILIO, Giacomo l’idealista (1897); Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1966.
DOSTOEVSKIJ, FËDOR, Lettere sulla creatività (traduz. e cura di Gian Lorenzo Pacini); Milano, Feltrinelli, 1991.
DOSTOEVSKIJ, FËDOR, Двойник, Dvojnik (1846, ediz. definitiva 1865-66). Edizione italiana: Il sosia (traduz. di Carol Straneo); Milano, TEA, 1991.
DOSTOEVSKIJ, FËDOR, Идиот, Idiot, 1868-69. Edizione italiana: L’idiota (introduz. di Alfredo Polledro, traduz. di Giovanni Faccioli); Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1954.
ERASMO DA ROTTERDAM, Enkomion morias seu laus stultitiæ (1511). Edizione italiana: Elogio della follia (a cura di Nicola Petruzzellis); Milano, Mursia, 1966.
FLAUBERT, GUSTAVE, Bouvard et Pécuchet (1881). Edizione italiana: Bouvard e Pécuchet - Canovacci (a cura di Lea Caminiti Pennarola, pref. di Roger Kempf, trad. di Gioia Angiolillo Zannino); Milano, Rizzoli, 1992.
FLAUBERT, GUSTAVE, Correspondance; Paris, Louis Conard, 1929-54 (8 voll.).
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GRIMMELSHAUSEN, HANS JAKOB CHRISTOFFEL VON, Der abentheurliche Simplicius Simplicissimus (1669). Edizione italiana: L’avventuroso Simplicissimus (a cura di Camilla Conigliani); Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1945.
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LESKOV, NIKOLAJ SEMËNOVIČ, Soboriane, 1866-72. Edizione italiana: I preti di Stàrgorod; Milano, Rizzoli, 1962.
MACHADO DE ASSIS, JOAQUIM MARIA, Memórias póstumas de Brás Cubas, 1880 (1881 in libro). Edizione São Paulo, Editora Atica, 1994. Edizione italiana: Memorie postume di Brás Cubas (a cura di Rita Desti); Torino, UTET, 1983.
MACHADO DE ASSIS, JOAQUIM MARIA, Quincas Borba, 1886 (1891 in libro). Edizione italiana: Quincas Borba (traduz. di Laura Marchiori); Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1967.
MUSIL, ROBERT, L’uomo senza qualità (2 tomi; a cura di Ada Vigliani; prefaz. di Giorgio Cusatelli, con un contributo di Donatella Mazza); Milano, Mondadori, 1992.
PIRANDELLO, LUIGI, Il fu Mattia Pascal; Roma, Nuova Antologia, 1904.
ROUSSEAU, JEAN-JACQUES, Discours sur l’origine de l’inégalitè parmi les hommes, 1755. Edizione italiana: Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini (a cura di Valentino Gerretana); Roma, Editori Riuniti, 1975.
ROUSSEAU, JEAN-JACQUES, Le contrat social, 1762. Edizione italiana: Il contratto sociale (traduz. e note di Valentino Gerretana; con un saggio introduttivo di Robert Derathé); Torino, Einaudi, 1966.
ROUSSEAU, JEAN-JACQUES, Emile, ou de l’éducation, 1762. Edizione italiana: Emilio (a cura di Aldo Visalberghi); Bari, G. Laterza & Figli, 1953.
SCHINDLER, CAROLINA MARÍA - JIMÉNEZ, ALFONSO MARTÍN, El licenciado Avellaneda y «El licenciado Vidriera»; in “Hipertexto”, journal online del Department of Modern Languages and Literature dell’University of Texas Pan-American di Edinburgh, Texas, n° 3, invierno 2006; pp. 81-100. Vedilo in: www.panam.edu/dept/modlang/hipertexto/Hiper3indice.htm
VOLTAIRE [FRANÇOIS-MARIE AROUET], Candide ou l’optimisme, 1759. Edizione italiana: Candido (traduz. di Giovanni Fattorini); Milano, Gruppo editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas, 1987.


(2007)

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